Paolo Graldi, Il Messaggero 28/06/2012, 28 giugno 2012
Nel dizionario dei servizi segreti le parole di una rivoluzione - Una sera, fine anni Ottanta, passeggiando per Manhattan dov’era in visita ufficiale come capo del Sisde, Vincenzo Parisi mi confidò quel che pensava del «servizio»: «Che cosa ci ho trovato dentro? Gente che andava per alcove in cerca di corna altrui, altri che inseguivano piste di autorità attratte dalla cocaina e segugi che s’affannavano a inseguire capitali esportati illegalmente all’estero
Nel dizionario dei servizi segreti le parole di una rivoluzione - Una sera, fine anni Ottanta, passeggiando per Manhattan dov’era in visita ufficiale come capo del Sisde, Vincenzo Parisi mi confidò quel che pensava del «servizio»: «Che cosa ci ho trovato dentro? Gente che andava per alcove in cerca di corna altrui, altri che inseguivano piste di autorità attratte dalla cocaina e segugi che s’affannavano a inseguire capitali esportati illegalmente all’estero. Una fabbrica di inutili dossier, un ricattificio. Poco o niente di istituzionale. Cambierò tutto». E lo fece, per quanto potè. C’erano dunque già allora alcune buone ragioni per pensar male delle Barbefinte, altrimenti definite sull’onda di Ian Fleming e del suo James Bond, indegnamente, 007 nostrani. Servizi deviati, oscuri depistaggi, complicità in mancati golpe e stragi riuscite, spesso al servizio del governo in carica e meno, molto meno a quello della Repubblica, intesa nel complesso delle sue istituzioni democratiche. Cioè di tutti noi italiani. Quella crosta di sospetti e di fiducia al minimo in una bella fetta della opinione pubblica è un male che Aise e Aisi (Agenzia informazioni sicurezza esterna e agenzia informazioni sicurezza interna) si trascinano ancora appresso nonostante la legge 124 del 2007 abbia rivoltato i servizi segreti da cima a fondo. E tuttavia, autorevolmente, si parla ancora di «sindrome della separatezza, con il rischio di devianze, ombra che può alimentare comportamenti non corretti». Un bel calcio al passato e alla parte residua di presente che non cammina con i tempi che corrono è venuto ieri dalla presentazione, per la prima volta nel nostro Paese, del Glossario di Intelligence, un dizionario che dispiega con intenti non solo divulgativi il linguaggio degli organismi informativi. Il libretto offerto in anteprima in una sala della presidenza del consiglio, presente un pubblico di generaloni, ammiragli, addetti, parlamentari interessati ed esperti del ramo, una platea decisamente over sessanta, nasce da una idea del prefetto Gianni De Gennaro, ora sottosegretario a palazzo Chigi con delega, appunto ai Servizi (Gianni Letta, puntualissimo, si è preso i diffusi complimenti per l’opera svolta nel passato governo) e subito raccolta e portata a compimento dall’ambasciatore Giampiero Massolo, che gli è succeduto nella carica di direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, in sintesi Dis. Un glossario dove i luoghi comuni del linguaggio attribuito ai servizi di sicurezza vengono spazzati via come segatura mentre s’inanellano le parole che definiscono ruoli, compiti, responsabilità, ambiti di intervento, limiti, comportamenti, attribuzioni, collegamenti. Ecco allora apparire le parole e il loro significato autentico: valutazione ambientale, fonte, materiale dual use, agente, accordo di sicurezza, cifratura, area riservata, minaccia, declassifica, humint, rischio, all-source intelligence, segreto di Stato, need to know, fiduciario, Copasir, Computer Sicurity e via elencando con ordine, puntigliosamente e con uno sforzo altissimo e centrato di comprensibilità. Questo materiale ha una missione svelata rivolta al grande pubblico e ai media in particolare e una, forse per nostra malizia, interna: serve a creare una cosa che non c’è e della quale c’è grande bisogno, una cultura della sicurezza, diffusa, aperta, trasparente, fiduciosa e accettata come bene per il Paese. E anche a spiegare all’interno delle Agenzie che sta cambiando l’aria, ovunque e dunque anche nei palazzi dei servizi di informazione per la sicurezza. Dice De Gennaro alla sceltissima platea di addetti ai lavori che vorrebbe i servizi segreti senza più segreti (a parte quelli di cui ovviamente c’è l’obbligo di tenerli riservati). E Massolo, venando di critica diplomatica le sue parole, (doti affinate nella sua brillante carriera alla Farnesina) parla di eccessiva autoreferenzialità, come a dire che i Servizi, culturalmente, parlano una lingua che usano soltanto tra loro, incompensibile all’esterno e possibile fonte di sfiducia dei cittadini. No, dicono insieme Massolo e De Gennaro, i cittadini debbono sapere che se qualcosa non vien detto è perché va protetto, custodito ma che debbono fidarsi, perché quel segreto è in buone mani e il resto deve essere disponibile, limpido. La riservatezza, insomma, non va intesa come ombra gettata su un caso per coprirne i lati oscuri e magari inconfessabili ma solo come necessità e per il resto governo, parlamento, istituzioni preposte possono e debbono poter controllare. Nel segno della fiducia e della trasparenza, appunto. I servizi segreti, viene precisato, intesi come servizi per la sicurezza nazionale, compresa quella industriale, economica, bancaria. Va bene la mafia, va bene il terrorismo e la lotta per disintegrarli ma anche la protezione delle fonti di energia, i capitali corsari che spadroneggiano e ingoiano le nostre imprese, i brevetti di interesse supremo, tutti beni per i quali anche la collaborazione del privato è auspicata, agevolata, bene accolta. Così, glossario o dizionario alla mano, all’interno delle Agenzie si saprà quale linguaggio parlare e dentro il linguaggio si capirà quali compiti, quali attribuzioni, quali responsabilità. Parlo a suocera perché nuora intenda, o viceversa, come si preferisce. E proprio qui sta la finezza perché nel dedalo delle definizioni che risentono giocoforza di inflessioni e passaggi in burocratese si introduce più forte che mai il concetto di coordinamento delle forze, di revisione delle spese non indispensabili, l’esigenza di rammodernare e incrementare dalle fondamenta i mezzi (non le auto blu ma i computer e tutto quel che offre la tecnologia più avanzata), di alleggerimento degli organici affrontando a testa bassa il problema del personale e delle provenienze, della sua qualità sul mercato delle intelligenze e delle competenze. Se è vero che cambiano dalla radice le missioni e il modo di svolgerle, fatte salve le eccellenze che pure ci sono e sono numerose, allora porte aperte alla collaborazione, già intensamente avviata, con le università con il mondo accademico e delle specializzazioni, dei master, degli aggiornamenti continui, del merito che si fa strada di pari passo con i gradi e le gratifiche. Dice Massolo: «È questione di capocce, di quelle abbiamo bisogno». Dunque nuovi termini per la selezione del personale, gente che parla bene le lingue, che è specializzata in materie sofisticate, che capisce l’economia, che nuota «nel mare aperto del mondo di oggi» senza affogare ma verso approdi sicuri. Il Glossario è quindi la rappresentazione grafica della nuova cassetta degli attrezzi di una professione, quella di spia autorizzata unicamente a difendere gli interessi del proprio Paese, avviando al tempo stesso una massiccia operazione di comunicazione verso l’esterno. De Gennaro, da capo della Polizia, ci aveva già provato con successo con la «sicurezza di prossimità», la polizia tra la gente, con la gente. Adesso tocca ai servizi segreti rivoluzionarsi. Molti pezzi della cassetta andranno presto cambiati e il Glossario sembra fatto apposta per costituire l’ariete capace di abbattere vecchi schemi, vecchie nostalgie e dove, è stato detto da Massolo, esibizioni inutili di forza debbono lasciare il posto alla forza della nuova intelligence. Ieri sono state trovate le parole per dirlo, adesso vanno costruiti i fatti per dimostrarlo.