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 2012  giugno 28 Giovedì calendario

ITALIA-GERMANIA


Stasera si rigioca Italia Germania. Per noi sarà sempre sinonimo di 4 3: la “partita del secolo” che il 17 giugno 1970 promosse il tricolore repubblicano a stendardo nazionalpopolare, agitato da folle in ebbrezza. Subito dopo s’inaugura a Bruxelles l’ennesimo “decisivo” vertice europeo. Monti, Merkel e colleghi sono chiamati a tirar fuori dal cilindro un coniglio che sanno non esserci o a esibirsi in altri esercizi di illusionismo, nella speranza di commuovere i mercati.
In tanta convulsione si sprecano i paralleli fra calcio e politica. Prima della crisi era un simpatico parallelo, solo un po’ bolso. Non ci stupiremmo se stavolta le allegorie politico-sportive finissero per suscitare esibizioni para-razziste, eccitate dai veleni della paura e della diffidenza reciproca. Quasi che, in materia, italiani e tedeschi non avessimo già dato il peggio di noi.
Italia e Germania sono due caratteri prima che due paesi. Nella storia del calcio esprimono due opposte idee di gioco. Fantasioso e agile quello nostrano, votato a chiudere gli spazi dietro e ad aprirli davanti per i contropiede. Metodico e muscolare il tedesco, un rullo compressore destinato a travolgere la Maginot italiana. Sicché i nostri eroi nelle sfide con i “panzer” sono stati gli stopper da trincea – il mitico Rosato nel ’70, Gentile nell’82, Cannavaro nel 2006 – adibiti al lavoro sporco, nobilitato dalle invenzioni dei Rivera, dei Conti o dei Totti. Sul fronte opposto, nessuno come “Kaiser” Franz Beckenbauer che braccio al collo guida l’assalto al fortino di Albertosi, nel delirio dell’Azteca, rende il modo germanico di affrontare i “furbetti” nostrani.
I due storici modelli di calcio corrispondevano alle reciproche percezioni dell’altrui “carattere nazionale”, a lungo soffocate sotto la cortina del politicamente corretto. Crollato il Muro di Berlino sono crollate anche le barriere psicologiche che frenavano le nostre pulsioni meno commendevoli. Quelle che vedono nell’opposizione all’altro – tedesco o italiano – la migliore definizione di sé.
Esemplare la vicenda dell’euro. Quando si trattò di vararlo, i tedeschi che avrebbero preferito tenersi il marco (erano la maggioranza, sicché non vennero interpellati) spiegavano di non voler condividere la moneta con noi mediterranei. Ci avevano quasi convinto ad aspettare il nostro turno, che forse non sarebbe mai
arrivato. Solo in extremis, quando il premier spagnolo Aznár comunicò a Prodi che la Spagna sarebbe entrata subito nell’euro, con o senza di noi, scatenammo lo sprint per non farci staccare dall’Europa “germanica”.
I tedeschi se la sono legata al dito. Di recente, lo
Spiegel
è uscito con una documentata inchiesta sull’“Operazione Autoinganno”. Documenti del 1994-98 dimostrano che “non si sarebbe
mai dovuta ammettere l’Italia nell’unione monetaria”. Eppure Kohl cedette, malgrado i nostri conti non tornassero, per “considerazioni politiche”. Aprendo così la strada, due anni dopo, alla ben più azzardata transustanziazione della dracma in euro. Morale: secondo l’esimio settimanale tedesco siamo noi italiani che abbiamo spalancato la porta ad Atene – la madre dell’eurodisastro.
Ora che la crisi dell’euro approssima lo zenit, scopriamo che è anche una crisi di nervi. Nella vasta famiglia europea volano gli stracci. Si rispolverano le teorie del “ carattere nazionale”. Un’antropologia dalle nobili radici (Montesquieu) divide l’uomo del Nord, stimolato dal freddo all’attività e alla diligenza, da quello del Sud, fiaccato dalla calura. In tempi di emergenza, queste tesi già bislacche scadono ad armi polemiche di sapore razzista. Così Thilo Sarrazin, già membro (socialdemocratico) dell’esecutivo della Bundesbank, oggi autore di bestseller neonaziona-listi, spiega che “riflessione progettuale e argomentazione razionale non sono gli impulsi tipici della società italiana”. Al contrario: “Quanto più nebuloso un paese e quanto più freddi e umidi gli inverni, tanto più meticolosa la politica finanziaria.”
Eppure le Nazionali di Prandelli e Löw, a ben vedere, non si lasciano comprimere nei modelli antropologici e calcistici consolidati. I nostri hanno inflitto agli inglesi una lezione di calcio, gestendo sovranamente palla per tre quarti dell’incontro. Tutto sono fuorché astuti e lamentosi. Per confezionare un gol devono sprecarne una buona dozzina. Quanto ai tedeschi, Sarrazin e (molti) associati dovrebbero rabbrividire nel contare i colori della tavolozza multietnica, largamente meridionale, che distin-
gue la Nazionale germanica fra tutte. E gli esperti segnalano nella tecnica e nella velocità dei suoi giovani, affiancati da vecchi volponi d’area all’italiana come Klose (quelli che mancano a noi), il marchio della
Nationalmannschaft.
Il calcio è più avanti della politica e del senso comune. In Germania, ad esempio, prolifera una letteratura di consumo su “come sopravvivere in una famiglia ita-
liana”. Peccato non sia tradotta. Ci aiuterebbe a interpretare i vertici Monti-Merkel. A capire perché la cancelliera a un certo punto tagli corto e saluti per non perdersi la partita della sua Nazionale.
Come ha osservato su
Limes
Birgit Schönau - giornalista di
Die Zeit,
brillante analista del Bel Paese e del calcio nostrano - “nella letteratura tedesca sull’Italia, gli italiani sono umanamente su-
periori ai tedeschi, ma culturalmente ed economicamente inferiori”; “un popolo allegro e spensierato di camerieri e gelatai è simpatico, perché non implica nessuna concorrenza. Gli esseri umani che popolano l’Arcadia stereotipata della letteratura tedesca sull’Italia sono magari amabili, ma da non prendere troppo sul serio: vivono come in un’eterna estate”. Tutto bene, finché non si ha in tasca la stessa
moneta. Da noi apparentemente usurpata in nome del (geo)politicamente corretto.
Caduti i freni inibitori, anche noi italiani riscopriamo il “carattere tedesco”. Durante il fascismo, il regime tentò con scarso successo di rinnegare la germanofobia nazionale centrata sul binomio civiltà/barbarie, succhiata con il latte per lunghi secoli e alimentata dall’epica del Risorgimento. “Voglio sradicare dalla testa degli italiani questa sciocca paura che hanno dei tedeschi”, confessò una volta Mussolini – lui che davanti al detestato Hitler diventava una pecora.
Dopo la guerra, nel clima di riconciliazione europea, dei tedeschi noi italiani preferivamo marcare i presunti tratti positivi affidabilità, precisione, puntualità. E quando battezzavamo “panzer” i loro calciatori e ne beffeggiavamo nei fumetti l’eccesso di disciplina (
Sturmtruppen),
non c’era malevolenza. Oggi l’accento cade sugli altrettanto presunti stigmi negativi – arroganza, fondamentalismo, egotismo.
Chiunque perda, stasera, sarà tentato di rovesciare sul vincente una buona dose di contumelie tratte dal repertorio delle rispettive fobie storiche. Se non accadrà, come vivamente ci auguriamo, vorrà dire che l’Europa dei popoli è molto più matura, libera e lungimirante di quella dei suoi leader. Grazie al calcio.