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 2012  giugno 28 Giovedì calendario

I COLORI DEL MARKETING A MOUNTAIN VIEW


Ieri ho visitato il quartier generale di Google, a Mountain View (California). Ci sono le biciclette arcobaleno, le t-shirt colorate con scritto «Google Maps», la mensa tra le palme, le piscine per il nuoto controcorrente, il bigliardo con le stecche, l’aula magna per gli incontri del venerdì con Larry e Sergei (sono venuti anche David Beckham e Lady Gaga). Un luogo duro e attento, com’è inevitabile che sia.
L’America è brava a coltivare l’informalità cosmetica, così clienti e concorrenti pensano sia una nazione ingenua e gioviale, la sottovalutano, e finiscono per fare ciò che chiede. L’America non è ingenua: non sarebbe la potenza che è. L’America non è gioviale: sta tornando a essere amichevole dopo il trauma del 2001 e gli anni sospettosi di George W. Bush. Ma è un’altra cosa.
Google è la rappresentazione di questa inevitabile durezza, colorata per questioni di storia e di marketing. Non pensavo, entrando a 1900 Charleston Road, alle preoccupazioni monopolistiche dell’antitrust italiana, o all’autorità europea per la concorrenza (che aspetta risposte entro il 2 luglio). Pensavo alla perfetta organizzazione, alla selezione drastica nelle assunzioni, al divieto di fotografie, all’imminente tablet destinato a scontrarsi con iPad, Kindle e Surface (Microsoft): un progetto di cui a Mountain View negano perfino l’esistenza.
Non sto biasimando Google: il passaggio da rivoluzione a istituzione è inevitabile, e capisco che una società quotata imponga cautele. È accaduto a Microsoft, poi a Apple, poi a Facebook (accadrà anche a Twitter). Solo Amazon — lunga visita al campus di Seattle, dieci giorni fa — mi sembra abbia conservato una scintilla dello spirito iniziale. Merito dei margini ridotti e di Jeff Bezos, che ha fatto stampare sui muri la parola magica: Day one, ogni giorno è il primo giorno.
Ripeto: non condanno e non mi lamento. Constato. Per chi è arrivato qui 35 anni fa (cinque amici e una motorhome), e ha continuato a tornarci, è entusiasmante vedere le palingenesi della California. Il brodo d’intelligenza delle università Usa genera casuali, piccole imprese; poi ci pensa il mercato. Se nel 1992 qualcuno avesse previsto che sarebbe bastato un telefono (con Google Maps) per trovare un indirizzo in questo dedalo di strade assolate lo avrebbero preso per un pazzo o uno stregone.
Ricordo un’inchiesta condotta nella Bay Area e nella Silicon Valley, vent’anni fa: tutti parlavano eccitati di portatili, presto potenti come computer da tavolo. Oggi vicino a Google vedo LinkedIn, Yahoo, Complete Genomics: social network, motori di ricerca e biotecnologie. I primi due sembrano più leggiadri, ma non è così. Anch’essi possiedono nostre informazioni. Possono colorarla come vogliono, piantarci intorno le palme e vestirsi come ciclisti per andare al lavoro. Rimane roba seria. Roba americana.
@beppesevergnini
http://italians.corriere.it