Vittorio Gregotti, Corriere della Sera 28/6/2012, 28 giugno 2012
LA TENDENZA NON FA ARCHITETTURA
Per capire qualcosa della mostra, inaugurata il 19 giugno al Beaubourg di Parigi, intorno ad una parte dell’architettura italiana 1965-85 con il sottotitolo «Tendenza», è necessario sapere due cose essenziali.
La prima è che si tratta in realtà di una mostra dei disegni che sono meritevolmente stati acquisiti dal Centre de création industrielle, una acquisizione ancora in corso, e quindi del tutto parziale. Questa parzialità si ribalta ovviamente sulla pretesa del titolo di rappresentare l’architettura italiana di quegli anni, e di assumere piuttosto sbrigativamente la cosiddetta «Tendenza» come l’unica definizione significativa del ventennio esaminato.
La seconda questione essenziale deriva proprio da questa tesi che non permette di capire le ragioni della particolare relazione con la storia che è l’asse portante dell’architettura moderna italiana dopo il 1945 e prima del postmodernismo. Tutto questo trova la sua legittimazione nell’ambiguità tra i disegni disponibili e la scelta di una tra le posizioni dell’architettura italiana di quel ventennio, ma ne rappresenta una falsificazione agli occhi dello spettatore non specialista.
Una falsificazione aggravata dall’affermazione della quarta di copertina che rivendica alla cosiddetta «Tendenza» una relazione con lo strutturalismo francese di cui i «tendenzisti» erano ideologicamente nemici e che invece era patrimonio sin dall’inizio degli anni Sessanta del Gruppo 63, e che aveva già trovato nella Triennale del ’64 piena espressione con l’esplicitazione del dibattito ideologia linguaggio.
Prima di tutto, per permettere di orientarsi nelle diverse interpretazioni della relazione architettura e storia, sarebbe necessario risalire agli anni Cinquanta. Cosa cui la mostra ha tentato di riparare, sia pure in modo insufficiente, ricorrendo all’esposizione di una ricca collezione di libri, di riviste e a qualche disegno di Mario Ridolfi e della Torre Velasca, cioè ai diversi modi del razionalismo italiano di accedere, con autocritica positiva, alla relazione con la realtà nazionale: da quelli provenienti dal neorealismo cinematografico e letterario sino all’opposta interpretazione zdanovista delle arti come rispecchiamento del trionfo del proletariato nella sua versione stalinista, dall’importanza della relazione critica con il contesto o, al contrario, con un atteggiamento di stilismo neoeclettico come elemento di polemica con la tradizione del movimento moderno dell’idea della grande scala antropogeografica cioè della geografia come modo di essere della storia e materiale del progetto (come insegnava proprio la cultura francese degli «Annales») sino alla costituzione di una distanza critica nei confronti della struttura della realtà, per mezzo delle forme specifiche dell’architettura.
La discussione, al di là delle diverse interpretazioni sulla compatibilità dell’idea di storia con l’unità alle diverse scale delle metodologie proposte dal movimento moderno e del suo progressivo interesse per il disegno urbano, ha costituito l’asse portante del tentativo da parte della mia generazione di costruire nuove regole del fare, con cui «l’eccezione necessaria e non ostentata avrebbe dovuto confrontarsi», per citare la celebre frase di Manfredo Tafuri.
Dopo la seconda metà degli anni Ottanta, il postmodernismo in architettura è definitivamente divenuto rispecchiamento della cultura del nuovo capitalismo finanziario globalizzato, e anche la produzione architettonica si è definitivamente accademizzata nella bizzarria gratuita e nella liquefazione comunicativa e mercantile delle arti. Questo è ben rappresentato nella copertina del catalogo significativa della tarda e incomprensibile convergenza tra il richiamo al rigore neoclassico da un lato e l’appello all’eclettismo voluto come libertà creativa del soggetto. Ma questa è un’altra vicenda rispetto alle intenzioni della mostra del Beaubourg.
Essa presenta comunque due elementi largamente positivi: una raccolta di belle illustrazioni di progetti prima del tramonto del disegno con lo straripare delle tecniche dei «rendering» e di una serie di modelli (originali o ricostruiti) delle architetture degli anni Settanta. Soprattutto la testimonianza dell’attenzione di una grande istituzione come il Beaubourg per l’architettura italiana, come elemento assolutamente indispensabile per la comprensione delle arti del Ventesimo secolo.
Ancora qualcosa va scritto sui testi, sovente impegnativi ma convincenti, che accompagnano il catalogo. Catalogo che cerca di riparare agli squilibri della mostra, anche se ne mette ancor più in evidenza gli squilibri nelle illustrazioni. Il testo che vale la pena di leggere attentamente è quello di Frederic Migayrou, vero responsabile della mostra e conoscitore profondo e appassionato della complicata ricerca italiana tra il ’50 e il 1985. Una tradizione che Migayrou analizza nei suoi vari aspetti, senza rinunciare alle proprie opinioni critiche, ma con il sincero intento di illustrare l’interesse e l’importanza dell’architettura italiana sul quadro dello sviluppo dell’architettura e in generale della cultura internazionale di quegli anni. A lui quindi, e ai suoi collaboratori, le lodi per questo tentativo, pur deformato dalle condizioni di fatto in cui esso si è potuto sviluppare e tendente a consolidare una descrizione delle avventure dell’architettura italiana del dopoguerra dall’inizio del postmoderno quanto meno assai parziale.
Si può anche piangere su questa occasione sprecata per tentare di far conoscere la complessità ma anche la ricchezza del dibattito sulla cultura architettonica italiana di quegli anni, ma soprattutto è necessario considerare come nemmeno in Italia si è tentato sin ora di costruire una grande mostra significativa degli anni 1950-1985.
Potrebbe essere un suggerimento per qualcuna delle future biennali di Venezia o per la Triennale di Milano?