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 2012  giugno 28 Giovedì calendario

Ali-Foreman: così Mailer raccontò la fine della boxe - L’ incontro AliForeman svoltosi a Kinshasa, Zaire, il 30 ottobre 1974 non è probabilmente da considerarsi il più bello mai disputato; senz’altro, però, è stato il più importante che la nobile arte abbia prodotto

Ali-Foreman: così Mailer raccontò la fine della boxe - L’ incontro AliForeman svoltosi a Kinshasa, Zaire, il 30 ottobre 1974 non è probabilmente da considerarsi il più bello mai disputato; senz’altro, però, è stato il più importante che la nobile arte abbia prodotto. Importante per svariati motivi: l’ex campione (Cassius Clay, alias Muhammad Ali) contro il campione (George Foreman) dei pesi massimi; due modi opposti di concepire la boxe, il danzatore del ring contro lo statico ma potente colpitore a freddo; un comunicatore straordinario e un uomo schivo affetto da monosillabismo; la star nata e l’individuo della folla venuto su a pane secco e pugni. I loro guantoni non si erano mai incrociati prima di quella notte, e dopo di allora non si incrociarono più. Ali veniva da una squalifica di tre anni e mezzo per aver criticato la posizione americana nel Sud-Est asiatico e rifiutato l’arruolamento («I vietnamiti non mi hanno fatto niente»), senza contare che il suo ultimo match ufficiale si era concluso con una sconfitta con l’altro grande pugile del periodo, Joe Frazier. Prima della partenza per l’Africa, Foreman era dato strafavorito per via della condizione fisica e del magnifico ruolino di marcia maturato fin lì. Ma nello Zaire Ali compì il suo miracolo psicologico sull’avversario: come testimoniano il bellissimo documentario Quando eravamo re e il partecipato resoconto di Norman Mailer ora riproposto da Einaudi, La sfida . Eccellente narratore (basti ricordare Il nudo e il morto ), critico e saggista (vinse due premi Pulitzer), spietato attaccabrighe della carta stampata, giornalista marxista e hippie, Mailer è stato uno dei migliori e corrosivi autori che la generazione che combatté nella seconda guerra mondiale abbia consegnato alle lettere. In questo testo, pubblicato pochi mesi dopo l’incontro, Mailer ripercorre il viaggio che lui e i suoi colleghi (George Plimpton della Paris Review , ad esempio) intrapresero al seguito del match del secolo. Match organizzato da Don King (poi manager di Mike Tyson) dopo aver fatto firmare a entrambi i pugili un contratto da cinque milioni di dollari e aver racimolato la somma solo grazie al presidente (dittatore) dello Stato africano Mobutu, a patto che i due campioni incrociassero i guantoni a Kinshasa – una Kinshasa priva di contestatori, si seppe poi trucidati o tenuti sotto chiave prima dell’arrivo delle telecamere. In questo scenario di terrore anestetizzato dai loghi degli sponsor e dalla evocativa voce di Miriam Makeba, la prosa giornalistica di Mailer tocca tutte le corde, non perde un palpito, restituisce la tensione di un’epoca (e di un’epica, quello intramontabile dello sport), e - nutrita com’è di ammirazione nei confronti di Ali - dimentica il dovere di cronaca per spingersi oltre: identifica il mito dell’atleta e, innamorato, ce lo mostra in tutta la sua inafferrabilità. Nel libro più che nell’incontro matura e si evolve la personalità di Ali: mulatto in una terra di neri come Foreman e perciò inizialmente visto come portatore degli usi del dominatore bianco, conquista il popolo africano con filosofia semplice e diretta («Io sono voi, voi siete me»), ne ammira i riti e li ripete con umiltà, porta sorrisi là dove c’è solo miseria e fame, e accede al cuore di tenebra di un continente per cavarne fuori non avorio o materie prime ma amore. Ali, nel corso dei giorni, durante gli allenamenti, diventa africano fino al midollo, «la madre terra» lo circonda e lo riaccoglie nel suo ventre. Dall’altra parte, il nero-nero Foreman non sa parlare all’anima, aspetta la data del match digrignando i denti, si infortuna, il match slitta, torna al sacco più arrabbiato di prima: non è africano, «è nero e basta», è lì per svolgere il suo lavoro senza lasciarsi tentare da interpretazioni storico-sociologiche. Non sono nella sua indole. Così come non lo sarebbe il tappeto del ring su cui invece crollerà il 30 ottobre dopo un incontro tatticamente perfetto del suo stupefacente avversario. Mailer è un maestro nel contrapporre le due filosofie di uno stesso sport. Si immerge in prima persona nella vicenda e presenta, senza dichiararlo, il suo debito al new journalism inaugurato da Truman Capote con A sangue freddo . Lì c’era la morte. Qui c’è la boxe. Ma le due visioni sono sovrapponibili. Al giorno d’oggi, forse, un tipo di giornalismo co m e quello è irripetibile: faticoso essere ovunque, costoso per quotidiani e magazine inviare cronisti che non riportino solo i nudi fatti ma anche l’ humus in cui si sono sviluppati. Scomparsi i vari Mailer e Plimpton, non è un caso che siano spariti anche i grandi pugili. Dopo Ali, Foreman, Frazier, Duran, Sugar Leonard, Hagler, Hearns, De La Hoya e il primo Tyson, la boxe ha smesso il suo fascino ed è uno sport alla caccia di un campione vero. Apparirà? Per il momento, risfogliamo le pagine che narrano dei re.