RUGGERO BIANCHI, La Stampa 28/6/2012, 28 giugno 2012
Silenzio, parla Cage - Maggio 1984. A Torino per una grande rassegna a lui interamente dedicata, John Cage dialoga con gli studenti di Palazzo Nuovo in un’aula magna affollata oltre i limiti di sicurezza
Silenzio, parla Cage - Maggio 1984. A Torino per una grande rassegna a lui interamente dedicata, John Cage dialoga con gli studenti di Palazzo Nuovo in un’aula magna affollata oltre i limiti di sicurezza. Affascinato dalle sue considerazioni sulle differenze tra i linguaggi dell’uomo e i linguaggi della natura, uno studente gli chiede di illustrare con un esempio concreto le sue tesi, pregando l’interprete di non tradurre quanto sta dicendo ma di invitare il compositore americano a rispondere soltanto in relazione al «suono» della domanda. Mentre Cage prende tempo per rispondere, un passerotto, entrato chissà come da una vetrata rotta del soffitto, si mette a cinguettare. Lui lo ascolta un istante e commenta: «Non credi che questa sia la risposta giusta?». Scrosciano gli applausi per un uomo che, pur avendo rivoluzionato la teoria e la prassi della musica del Novecento, non manca mai di offrirsi a spettatori e ascoltatori con il suo sorriso semplice e disarmante, la sua aria fanciullesca e dolce da fraticello «folle di Dio». Ben diversa era stata l’accoglienza riservatagli nel 1958, in occasione del suo primo soggiorno lungo in Italia, allorché, invitato da Sylvano Bussotti a lavorare e sperimentare insieme, per pagarsi le spese si era presentato a Lascia o Raddoppia? come esperto di micologia, rispondendo a tutte le domande e vincendo cinque milioni di lire, ma scatenando le battute maliziose di un Mike Bongiorno come al solito gaffeur. Il quale peraltro non poteva sapere che per Cage i funghi (cui aveva addirittura dedicato una serie di composizioni, da Mushroom Book aMushrooms et Variationes ) non erano semplici prelibatezze gastronomiche bensì un’incarnazione della «vocazione artistica» della natura, capace (come già aveva intuito Goethe nei suoi studi botanici) di un’«arte organica» spontanea e insieme predeterminata e che pertanto il compito dell’artista non era tanto creare nuovi suoni quanto scoprire e «mettersi in ascolto» di quelli esistenti e occulti. Magari chiudendosi in una camera anecoica per udire un silenzio che assoluto non era, scandito com’era dalla musica dei polmoni e del cuore, del fiato e del sangue. O sognando di suonare su un giradischi una sezione di sequoia millenaria, con le sue venature imprevedibili al posto dei solchi geometrici del padellone. Sicché sarebbe davvero ingeneroso rimproverare al presentatore lo scambio conclusivo di battute, quando, dopo avergli chiesto se sarebbe tornato in America o rimasto in Italia ed essersi sentito rispondere: «Mia musica resta qui», si concesse un ormai storico commento: «Ah, lei va via e la sua musica resta qui. Ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui!» Come poteva Mike rendersi conto che chi gli stava di fronte aveva (e avrebbe) frequentato e lavorato con i maggiori maestri del Novecento (da Max Ernst, Mondrian, Pollock, Man Ray, Breton e Moholy-Nagy a Schoenberg, Stravinsky, Hindemith, Messiaen e Boulez, da Merce Cunningham e David Tudor a Nam Juke Paik e Cathy Berberian), studiando al tempo stesso le musiche di Bach, gli scritti di Suzuki sul buddhismo zen, l’estetica, la musica e la danza indiana con Gita Sarabhai, l’I King, l’ alea e l’ ars combinatoria , gli scacchi e la sezione aurea? Cage si è occupato a tutto campo di ogni teoria e forma artistica di cui aveva esperienza e ha dedicato la vita a elaborare un’estetica rivoluzionaria fondata sulla coesistenza di caso e necessità, creazione e scoperta, improvvisazione e progettazione, crescita organica e struttura matematica, principio di indeterminazione e teoria del caos. Ancor oggi del resto, a cent’anni dalla sua nascita e a venti dalla sua morte, pur essendo ovunque riconosciuto come una figura epocale dalla quale è impossibile prescindere in uno studio dell’arte del presente e del futuro, Cage resta una sorta di oggetto misterioso, incomprensibile se non ignorato. L’atteggiamento di molti musicologi nei suoi confronti è ancora in parte quello di Massimo Mila, costretto ad ammetterne le innovazioni teoriche ma restio ad apprezzarne il talento artistico. Non tanto perché era tutt’altro che un musicista in senso canonico, quanto, più verosimilmente, perché dei suoi stessi lavori era più un ascoltatore che un compositore o un esecutore. In 4’33” , ad esempio, la partitura impone all’«esecutore» di non suonare il proprio strumento (qualunque esso sia) per quattro minuti e trentatré secondi esatti, giacché il «concerto» da «ascoltare» è il silenzio che si crea in sala nell’attesa dei suoni che non giungono, con l’accompagnamento dei rumori che esso attiva negli spettatori. Nei «concerti per piano preparato» come Sonatas and Interludes, tra le corde del pianoforte a coda vengono inseriti oggetti di ogni genere che ne modificano imprevedibilmente i suoni, sicché il pianista stesso ascolta e scopre la musica che esegue soltanto nel momento in cui usa la tastiera. Per i primi lavori concepiti con il coreografo e danzatore Merce Cunningham (poi suo compagno di vita), l’unica regola che i due si danno è la «durata» del pezzo: un tempo prestabilito sul quale ciascuno lavora all’insaputa dell’altro fino al momento del debutto, quando gli artisti vedono e sentono per la prima volta la sequenza in simultanea con il pubblico. Nel celebre happening presentato al Black Mountain College nel 1952, Cage propone ad artisti di ogni disciplina una serie di notazioni spaziotemporali rigorosissime, assegnando a ciascuno una sezione specifica della sala e una tempistica precisa e indicando quando e per quanto tempo agire, senza tuttavia imporre loro una partitura ma lasciandoli liberi di esprimersi come vogliono, magari improvvisando, con musiche, danze, canti, gesti o parole. Su dimensioni ben maggiori, alla medesima logica s’ispira la serie di Musicircus. Nessuno, nemmeno l’autore, può farsi in anticipo un’idea del risultato e nessuno può sentire i medesimi suoni, giacché ciascuno ascolta e si crea sul momento un proprio unico, esclusivo e irripetibile concerto. È il principio fondamentale dell’happening (poi elaborato da Allan Kaprow e Claes Oldenburg, Fluxus e Michael Kirby) e della performance art, di cui Cage è infatti considerato l’inventore, così come lo è della musica aleatoria e di quella «environmentale». Proprio qui sta in fondo lo straordinario paradosso di Cage. Nel proporre una musica basata più sul silenzio e i rumori che sulle scansioni e i ritmi, le melodie e le armonie tradizionali; nel privilegiare il tempo come «durata» sul tempo classico del pentagramma; nell’invertire il ruolo tra compositore e ascoltatore, trasformando il primo in spettatore (non di ciò che crea bensì di ciò che scopre) e il secondo in creatore di una partitura che dipende non solo dai tempi del suo muoversi ma anche e soprattutto dagli spazi in cui sceglie di muoversi; nel dare forza all’effimero e all’aleatorio e nell’usare criticamente come pietra angolare del processo artistico lo sciamanesimo e la divinazione, in vista di un evento condiviso che è «invenzione» in senso etimologico, cioè ritrovamento o meglio trovamento di noi stessi, di chi e che cosa siamo, donde veniamo, dove andiamo e dove vorremmo o vogliamo arrivare.