Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 28/6/2012, 28 giugno 2012
IL PAESE È RICCO DI BUONE OCCASIONI
La Deutsche Bank ha un’opzione d’acquisto sul 5% di Unicredit che il fondo speculativo Pamplona ha rastrellato a prezzo vile con soldi presi a prestito proprio dalla banca di Francoforte. E poi si scopre che questa detiene anche l’1% in diretta proprietà. L’Allianz, compagnia assicurativa di Monaco di Baviera, conserva il suo storico 2%. Il capitale tedesco, che nel 2005 aveva una rilevante partecipazione in Unicredit all’indomani dell’acquisizione della Hypo und Vereinsbank, si era defilato, soprattutto di fronte alle nuove emissioni azionarie, pur indispensabili per salvare la banca transeuropea costruita da Alessandro Profumo. Adesso, mentre il premier Mario Monti tratta con la cancelliera Angela Merkel le condizioni dell’European Redemption Fund a presidio dei debiti pubblici, la Deutsche Bank si mette nelle condizioni di contendere al fondo sovrano di Abu Dhabi il ruolo di primo azionista della principale banca italiana, il cui attivo è pari al 60% del Prodotto interno lordo del Paese.
Il colosso tedesco era stato il primo, nel luglio 2011, a tagliare i titoli di Stato italiani e a darne notizia ai mercati. Il governo Berlusconi sottovalutò quel campanello d’allarme. Monti e la Banca d’Italia hanno potere ed esperienza per farsi sentire in questa nuova partita.
Deutsche Bank deve chiarire le condizioni del prestito e dell’opzione e, soprattutto, i suoi progetti. Magari spiegherà che si tratta di un trading più sofisticato di altri. Tireremo un sospiro di sollievo. Ma se così non fosse, nemmeno la banca presieduta da Paul Achleitner potrebbe essere accolta a scatola chiusa. Sarebbe interessante, per esempio, riclassificarne lo stato patrimoniale secondo la declinazione italiana dei principi contabili internazionali. Che è più seria — sì, leggete bene: più seria — di quella tedesca. E poi, rifatti per bene i conti, la Vigilanza dirà quel che deve nel rispetto delle leggi.
Il crollo della Borsa mostra un’Italia a sconto. Pesa la recessione, ma anche, e molto, la percezione di un rischio Paese più alto di quanto non dicano i numeri base dell’economia. In queste condizioni, l’Italia corre il duplice pericolo di farsi sfilare i gioielli del settore privato — uno per tutti: le Generali — attraverso manovre finanziarie, magari opache, e di trovarsi costretta a mettere all’incanto le grandi aziende a partecipazione statale — Eni, Enel, Finmeccanica — quale pegno di risanamento della finanza pubblica. Non sarebbe un bel giorno. Meglio evitarlo.
Il caso Unicredit ha valore preventivo e segnaletico. L’Italia non è un Paese chiuso. Ma vuol conservare il potere di decidere sulle partite strategiche. Quando l’Audi compra la Ducati, spiace constatare che non si sia ripetuta la storia della Piaggio, dove un italiano, Roberto Colaninno, seppe prendere in mano la situazione. E tuttavia l’Audi va salutata con fiducia perché entra in trasparenza, chiedendo permesso anche ai sindacati (tutti) e garantendo sviluppo a Bologna. Il governo dei flussi finanziari è più delicato. Non possiamo dimenticare che la Banca d’Italia ha sudato le sette camicie per recuperare la sovranità di Unicredit sulla liquidità del gruppo che la Bafin, la Vigilanza tedesca, aveva segregato in Germania. Insomma, banche, assicurazioni e industrie non vivono trincerandosi. Si può cambiare. Anche molto. Ma mettendo prima tutte le carte sul tavolo. Con spirito paritario ed europeo.