Giovanni Belardelli, Corriere della Sera 28/6/2012, 28 giugno 2012
Dal 1900 al 1925 Luigi Einaudi pubblicò sul «Corriere della Sera» una mole impressionante di articoli, prevalentemente di argomento economico, che ne fecero una delle firme di punta del giornale negli anni della direzione di Luigi Albertini
Dal 1900 al 1925 Luigi Einaudi pubblicò sul «Corriere della Sera» una mole impressionante di articoli, prevalentemente di argomento economico, che ne fecero una delle firme di punta del giornale negli anni della direzione di Luigi Albertini. Già solo questo indica l’importanza dei due volumi, curati da Marzio Achille Romani, che ora raccolgono per la prima volta il carteggio completo tra Einaudi e Luigi Albertini (e una parte significativa delle lettere scambiate tra il primo e Alberto Albertini, fratello e strettissimo collaboratore di Luigi), nonché una scelta degli articoli einaudiani mai ripubblicati (Luigi Einaudi e il «Corriere della Sera», Fondazione Corriere della Sera, 2 tomi, 70). Ad accrescere l’interesse dell’opera sta il fatto che nessuno, forse, tra i principali esponenti della cultura italiana del Novecento ha intrattenuto con il giornalismo un rapporto così stretto come Einaudi. Lo nota, in uno dei saggi introduttivi ai volumi, Giuseppe Berta, ponendo questa circostanza in rapporto con la concezione stessa che Einaudi aveva dell’economia come scienza costruita sull’analisi di problemi concreti; un’analisi che appunto l’attività giornalistica sollecitava costantemente a fare. Per Einaudi, anzi, «il sacerdozio giornalistico» era «ugualmente nobile ed alto come il sacerdozio scientifico», secondo quel che scrisse nel novembre 1925 al nuovo direttore del «Corriere della Sera» Pietro Croci, per annunciargli l’intenzione di cessare la propria collaborazione dopo che Albertini era stato costretto dal regime a lasciare il giornale. Attraverso le pagine del carteggio tra Einaudi e Albertini (ottimamente annotate da Andrea Moroni) emergono le molte cose che li univano ma anche alcuni motivi di dissenso che alimentavano discussioni proficue per entrambi. L’uno e l’altro certamente condividevano l’idea che scopo ultimo del «Corriere della Sera» fosse quello di educare la borghesia italiana a quei principi di iniziativa individuale, di difesa delle virtù del mercato contro i protezionismi e i monopoli, di rispetto dei propri doveri e responsabilità, anzitutto nel pagamento delle imposte, necessari a farne davvero una classe dirigente. A dividerli era l’indisponibilità di Albertini a sposare in tutto e per tutto le posizioni liberiste di Einaudi, con quell’avversione nei confronti dell’intervento statale che al direttore appariva a volte troppo dottrinaria. Comunque, seppure con una posizione più pragmatica che di principio, anche Albertini condivideva la battaglia contro l’eccessiva presenza dello Stato nell’economia, ad esempio contro quei «padreterni» — come li definì Einaudi in un famoso articolo del 1919 — che, forti degli incarichi pubblici ricoperti, cercavano di ostacolare lo smantellamento dell’apparato di controllo creato durante la Prima guerra mondiale. Per Einaudi era necessario che gli imprenditori potessero ricominciare quanto prima a produrre e commerciare «senza bolli, senza inchinarsi a destra e a sinistra, senza fare viaggi a Roma». Nel corso degli anni Einaudi dovette convincersi della scarsa possibilità che i propri suggerimenti venissero accolti; di conseguenza i suoi articoli assunsero sempre più il carattere della perorazione, diventando in sostanza delle prediche inutili, secondo la famosa definizione che poi lui stesso darà di alcuni suoi scritti degli anni 50. Naturalmente l’opera consente anche di ripercorrere, attraverso i rapporti Einaudi-Albertini, un quarto di secolo cruciale della nostra storia: il periodo giolittiano, la guerra e il dopoguerra, l’avvento al potere di Mussolini. Su quest’ultimo punto, vale a dire sui giudizi di Albertini ed Einaudi nei confronti del fascismo, i saggi posti a introduzione dell’opera (di Romani, di Berta nonché di Giovanni Pavanelli) ripropongono l’interpretazione che vede Albertini fortemente condizionato dal proprio antisocialismo e perciò incline a schierare il «Corriere» su posizioni di sostegno al fascismo, almeno anteriormente alla marcia su Roma. Ma è un giudizio che non convince interamente. Gli articoli dell’epoca stanno a dimostrare come inizialmente il «Corriere» simpatizzasse per il fascismo in chiave antisocialista, nella speranza che — nonostante i censurabili modi violenti — il movimento di Mussolini potesse rappresentare quella riscossa nazionale e liberale che Albertini o Einaudi auspicavano. Si trattava, è ovvio, di un’illusione. Il punto è però che la minaccia proveniente dall’orientamento rivoluzionario del Psi (uscito dalle elezioni del 1919 come primo partito del Paese) apparve ai contemporanei del tutto reale, anche in conseguenza del modello che la rivoluzione aveva acquisito a Mosca. Non si può insomma, col senno di poi, imputar loro di avere preso troppo sul serio il pericolo che veniva da sinistra alle istituzioni liberali. Così come non convince interamente il tradizionale rimprovero mosso a liberali come Albertini ed Einaudi per non avere compreso subito la natura intimamente sovversiva del movimento mussoliniano (che ai loro occhi diventerà chiarissima dopo l’assassinio Matteotti). Questa mancata comprensione vi fu; ma non dipese tanto — come spesso si sostiene — dai limiti di un liberalismo accecato dall’antisocialismo e dal desiderio di difendere i propri privilegi di classe. La sottovalutazione del fenomeno fascista che caratterizzò Albertini ed Einaudi stava anzitutto nelle cose, in un elemento oggettivo di difficoltà a cogliere la novità di quel movimento, se anche un futuro, strenuo oppositore di Mussolini come Gaetano Salvemini, nel febbraio 1923, poteva ritenere «utile al Paese» che il fascismo liquidasse le «vecchie consorterie democratiche, riformiste, socialiste». Il carteggio tra Albertini ed Einaudi permette appunto di seguire i momenti decisivi del passaggio dal regime liberale a quello fascista attraverso i giudizi di due osservatori dell’epoca, dunque con tutte le difficoltà, i limiti, i fraintendimenti che spesso caratterizzano il punto di vista dei contemporanei.