Emanuele Lauria, la Repubblica 28/6/2012, 28 giugno 2012
PALERMO SI È
aggrappato a un cavillo per non perdere la sua pensione da favola. Per recuperare un assegno di quiescenza che sfonda qualsiasi tetto ai compensi pubblici in discussione in Parlamento e si fa beffe della spending review: mezzo milione di euro l’anno, 41.600 al mese, 1.369 al giorno. Felice Crosta, l’ultimo grand commis della Regione siciliana, quei soldi li vuole.
COSÌ ha deciso di adire l’ultimo tribunale, la Cassazione, per far valere i suoi diritti di pensionato più ricco d’Italia, in grado di guardare dall’alto in basso ex governatori di Bankitalia e giudici della Consulta.
Il 10 luglio toccherà alla Suprema Corte dire la parola definitiva su una vicenda che, dopo essere stata rivelata da Repubblica nel marzo del 2010, ha attraversato i tempi della crisi con la violenza di una deflagrazione, riempiendo pagine di libri e animando dibattiti televisivi. Crosta era uno dei superburocrati siciliani più rispettati che l’ex governatore Totò Cuffaro - ora in carcere per scontare una condanna a sette anni per favoreggiamento alla mafia nominò nel marzo del 2006 a capo dell’Agenzia per i rifiuti: un incarico che valeva oltre 460 mila euro l’anno. Crosta accettò la proposta e si dimise dopo pochi mesi. Ma quell’indennità percepita così brevemente gli valse comunque
come base pensionabile, in forza di una “leggina” che l’Assemblea regionale siciliana aveva varato a fine 2005, cioè proprio alla vigilia della nomina: un caso? Chissà. Di certo, declinato l’astro di Cuffaro, Crosta passò all’incasso: e all’amministrazione nel frattempo transitata nelle mani di Raffaele Lombardo e divenuta ostile, chiese il conto: «Non si tratta certo di un regalo, io ho lavorato per 45 anni», spiegò il dirigente. La Corte dei Conti, in primo grado, all’inizio del 2010 aveva pure riconosciuto il suo diritto. E la sua pensione da record. Crosta l’ha regolarmente - e legittimamente - percepita per un paio d’anni. Nel dicembre scorso l’appello
ha però ribaltato il verdetto, stabilendo che al manager pubblico debba essere riconosciuta una pensione commisurata all’indennità percepita prima del “regalo” di Cuffaro: 227 mila euro annui, circa la metà dell’assegno fino a quel momento percepito. Una cifra che comunque pone Crosta ai vertici delle classifiche reddituali del
pubblico impiego. La storia sembrava essersi conclusa lì, con la soddisfazione dell’attuale governo della Regione Siciliana, ente che ha un indebitamento superiore ai cinque miliardi, e che ha subito chiesto al dirigente di restituire 1,5 milioni di euro di arretrati. L’ex magistrato
Caterina Chinnici, la figlia del giudice ucciso dalla mafia che fa l’assessore nella giunta Lombardo, parlò di una sentenza che restituiva equità al sistema pensionistico siciliano visto come «emblema di sprechi e malcostume» e cancellava un «grave danno d’immagine » per l’amministrazione.
Ma Crosta, che di mestiere fa l’avvocato, non si è rassegnato. E, malgrado la Corte dei Conti preveda due soli gradi di giudizio, si è rivolto alla Cassazione, contestando la composizione del collegio che gli ha dimezzato l’indennità: ne faceva parte con voto deliberativo, è scritto nel ricorso, un referendario «non in veste di relatore ». La legge lo vieterebbe. Un cavillo, appunto. Che però potrebbe annullare la sentenza della magistratura contabile e restituire al burocrate il suo maxi-assegno.
Per carità, la battaglia solitaria
di Crosta - dirigente rimasto in buoni rapporti con la politica che nel 2011 è stato consulente dell’ex ministro Saverio Romano - sorprende fino a un certo punto in una regione dove resistono le indennità pubbliche d’oro, ad onta del Pil più basso del Paese. Basti pensare che le figure di vertice dell’amministrazione del parlamento siciliano percepiscono una pensione doppia rispetto all’ipotizzato tetto di seimila euro del discusso emendamento Crosetto: i segretari generali dell’Ars con 35 anni di anzianità, infatti, hanno diritto a una pensione netta mensile pari a 12.263 euro. Una storia di laute concessioni, previste dal regolamento “autonomo” dell’Assemblea, cominciata a metà degli anni ’90 con Silvio Liotta, che prima di diventare deputato e contribuire nel ’98 alla prima caduta di Prodi, si era messo a riposo da dirigente con due miliardi di vecchie lire di liquidazione e una pensione che, allora, ammontava a sedici milioni al mese. Agli ultimi due segretari generali dell’Ars, Antonino Giuffrida e Gianliborio Mazzola, toccano pensioni che sfiorano i 400 mila
euro annui lordi. Somme che hanno suscitato l’indignazione, pensate, degli stessi politici siciliani, pure beneficiari di stipendi uguali a quelli del Senato. Quando, a fine 2006, Mazzola andò in pensione, l’ex ministro Gianfranco Micciché - allora presidente dell’Ars - disse pubblicamente di sentirsi «un deficiente» per aver firmato un decreto di liquidazione da un milione 770 mila euro. Doveva ancora esplodere, allora, il caso Crosta, con la sua lunga scia di polemiche e irritazioni diffuse lungo la Penisola. Con il suo carico simbolico: anche di questo terranno conto i giudici della Cassazione?