Michele Smargiassi, la Repubblica 27/6/2012, 27 giugno 2012
SCENE DA UN MATRIMONIO
E di amarvi e onorarvi, nella buona e nella cattiva foto. Ma la foto, buona o cattiva, deve esserci. Un matrimonio senza immagini non è pensabile, non è neppure un matrimonio, si può dire che il vero certificato di nozze non è quello che i testimoni firmano, ma è l’album atroce e oltraggiosamente costoso che gli sposi si sentono obbligati a portare a casa. Ultimo fra i riti sociali ad essere eroso dalla postmodernità, le nozze sono anche uno degli ultimi eventi della vita privata per cui si ricorre a un fotografo retribuito. Ancora per molto? Forse no, forse l’onda montante della fotografia ubiqua e tascabile dei cellulari, che ha raggiunto l’altare, caccerà anche da lì i servigi dei professionisti già espulsi da battesimi e lauree.
Ma anche così il matrimonio resterà forse a lungo il più potente, inevitabile evento iconogenico nella biografia di ogni cittadino occidentale medio. Vale la pena di chiedersi perché, e come accada: l’hanno fatto in molti, lo fece il sociologo Pierre Bourdieu agli albori della fotografia di massa, lo fece l’antropologa Clara Gallini nel crepuscolo tra mondo contadino e società dei consumi, lo fa ora una semiologa, Maria Pia Pozzato in un libro di studi di semiologia del quotidiano (
Foto di matrimonio e altri saggi,
Bompiani), divertente e divertito ma saldamente piantato, frugando nel piccolo
corpusdi
album di nozze scovati e raccolti a Bologna, che vanno dagli anni Sessanta ad oggi. Per scoprire magari che il matrimonio foto-digitale è più un ritorno al passato, al matrimonio in bianco-enero, che un salto nel futuro, e che il foto-matrimonio artificiale e mal recitato come una
fiction
televisiva è stato forse solo una breve deprimente parentesi in una vicenda antropologica profonda che si dimostra più forte delle arroganze della civiltà dei consumi.
Quando le studiava Bourdieu, negli anni Sessanta, le foto di matrimonio erano straordinari “sociogrammi”: la struttura e la gerarchia delle relazioni parentali e di potere era trasparente nei gruppi in posa, nel protocollo dei posti in chiesa, nel
dress code
degli invitati. Ma già allora un potente elemento di distorsione era al lavoro. Già quelle foto modeste monocromatiche coi bordi seghettati erano il palcoscenico di una recita non del tutto inconsapevole. Di fronte al fotografo, funzionario della memoria, monumentalizzatore dell’evento, si trattava di dimostrare ai poteri di “aver saputo fare gli sposi”. Il matrimonio, almeno quello borghese analizzato da Pozzato, non ha mai fatto parte della ordinarietà
della vita, è un codice da apprendere, a cui sforzarsi di essere conformi. Come gli aristocratici russi che Pietro il Grande obbligò a parlare e a vestire e a gesticolare in francese, gli sposi vivono “il giorno più bello della vita” in trasferta linguistica, fuori dai propri panni, in tutti i sensi. Si recita, ma come recitano i partecipanti a un rito religioso. Al fotografo, onesto artigiano dello studio all’angolo, non restava molto più che registrare come un funzionario
dello Stato civile la conformità dei gesti e degli aspetti alla norma, e validare tutto in buona calligrafia ma senza estrosità, come un buon documento richiede (per questo la fotografia a colori, già tecnicamente disponibile, era fuori discussione).
Quegli album erano la prova che il matrimonio era avvenuto, in modo adeguato e secondo le regole, ed era valido. Poi qualcosa è cambiato, e anche molto in fretta. L’album non deve più certificare che l’evento è
accaduto,
ma che l’evento è
riuscito.
Il rito lascia il posto allo show, la conformità cede al successo come criterio di valore. Gli sposi non devono più essere buoni celebranti, ma abili attori. Intendiamoci: anche prima c’erano modelli da imitare, Pozzato li rintraccia in qualche adattamento popolare delle tradizioni pittoriche, forse sottovaluta il peso che nella cultura iconografica dell’epoca avevano i rotocalchi con tutti quei servizi sulle nozze di regine e principesse, o per quanto riguarda le “pose giuste” da assumere davanti all’obbiettivo, quelle delle eroine e dei belloni dei fotoromanzi. Ma negli anni della tivù commerciale succede che non si imitano più modelli, ma
performance.
Non si cerca più di somigliare staticamente a Soraya o a Grace Kelly, ma di comportarsi dinamicamente come
le attrici di
telenovelas,
le comparse delle pubblicità, le
top model
dentro e soprattutto fuori dalle passerelle. L’ilarità è ammessa, le allusioni e le sfrontatezze controllate pure, le vecchie pose gessose si sciolgono nella finta spontaneità, da sacerdote del proprio rito la coppia diventa protagonista del proprio
realityrosa.
Il fotografo annusa il vento, e da funzionario anagrafico si fa regista. La competizione feroce tra i professionisti del genere si combatte ora a colpi di effetti speciali. Se i responsabili della costruzione dell’icona nuziale prima erano sposi e invitati, ora è il fotografo l’enunciatore prepotente, dittatore in scena, è lui che impone le pose, ordinarie e romantiche o “divertenti”, lui che studia gli effettacci coi filtri rifrattori e colorati, lui che
inserisce nel racconto fotografico i dettagli “d’artista”, i primissimi piani.
Quel che succede nella terza età del fotomatrimonio, quel che sta succedendo ora, è travolgente e difficile da interpretare. La rivoluzione comincia nelle tasche dei ragazzini, con gli smartphonedisinvolti che ne vengono fuori ovunque, anche nelle navate delle chiese. Il reportage selvaggio fotocellulare di nozze pian piano affianca, ancora non rimpiazza ma destabilizza l’album dell’era tivù. Sono foto sfrontate e maleducate, hanno la forma del senza forma, sono ridondanti smaccate insignificanti se prese una per una, ma cambiano il clima. E non perché sono foto digitali, qui Pozzato cade nello stesso strabismo dei tecno- entusiasti, la tecnica di registrazione non conta, bisogna considerare i modi della condivisione, la destinazione delle immagini dopo lo scatto, e qui c’entra Internet, c’entrano i social network.
Il matrimonio fotocellulare non è più documento né fiction, è flusso senza deposito, non produce album infatti, produce narrazioni ibride, effimere, disseminate in Rete, rimescolate con i programmi di ritocco, euforizzate da mini-didascalie ironiche, condivise su Twitter o su un profilo Facebook o direttamente sul display del cellulare, per pochi secondi, e poi scompaiono. Lo studio di Pozzato si ferma prima di questa smaterializzazione dei supporti, su questo inizio della fine della foto di nozze come deposito di memoria. Forse perché il processo non è ancora compiuto, e in qualche modo l’album, di carta o in forma di slideshow elettronico con musica, ancora resiste come oggetto concreto memoriale ed emotivo, i professionisti cercano solo di adeguarsi un po’ alla moda “sprezzando” l’estetica già invecchiata delle foto stile tivù per farle somigliare a quelle di Instagram. Ma non è detto che duri. Già oggi esistono gli album di divorzio: ex sposi amareggiati chiedono a tecnici di correggere le proprie foto, tagliando via al computer il partner. Siatevi fedeli, finché Photoshop non vi separi.