Ettore Livini, la Repubblica 27/6/2012, 27 giugno 2012
Aeropoli non è segnata su nessuna carta geografica. Eppure questa nazione in eterno movimento, con 7,6 milioni di abitanti (mai gli stessi), senza case o strade ha cambiato negli ultimi quarant’anni la mappa del cielo
Aeropoli non è segnata su nessuna carta geografica. Eppure questa nazione in eterno movimento, con 7,6 milioni di abitanti (mai gli stessi), senza case o strade ha cambiato negli ultimi quarant’anni la mappa del cielo. Restringendolo, facendolo diventare più verde e affollato e — soprattutto — molto meno caro. A più di un secolo dal barcollante decollo del “Flyer”, il leggendario trabiccolo alato dei fratelli Wright, il mondo ha imparato che si può vivere benissimo anche senza tenere troppo i piedi per terra. Nel 1971 l’ebbrezza del volo era un affare per pochi, solo 280 milioni di persone all’anno. Oggi l’industria dei cieli è una repubblica a se stante che ha decuplicato le sue dimensioni, dà lavoro a 20 milioni di persone e ha un Pil (600 miliardi di dollari) superiore a quello della Norvegia. Tra le nuvole è nata una megalopoli dell’aria con 2,8 miliardi di passeggeri l’anno — ogni giorno si imbarcano su un jet oltre 7,6 milioni di viaggiatori — capace di gemmare a suo supporto maxiaeroporti diventati ormai città nelle città: a Heathrow, lo scalo di Londra e al Charles De Gaulle, quello di Parigi (snodi dove transita il 25% del traffico europeo) passano ogni giorno 178mila persone. A Pechino 200mila. E se i calcoli della Iata (l’organizzazione delle aerolinee mondiali) sono giusti, Aeropoli continuerà a crescere a un ritmo triplo rispetto a quello dell’economia globale, arrivando nel 2050 a 45 milioni di abitanti e 16,6 miliardi di novelli Icaro trasportati ogni anno da una parte all’altra della terra passando per il cielo. Il motore di questa delicatissima macchina è un nucleo duro di mille compagnie aeree che negli ultimi decenni hanno stravolto e rivoltato come un calzino il loro modello di business. Moltiplicando i collegamenti, l’offerta, l’efficienza e (per fortuna) la sicurezza senza però riuscire ancora — purtroppo per loro — a tradurre questo ciclopico compito organizzativo in una pioggia di utili. A guidare le loro scelte sono due stelle polari: la globalizzazione — che li costringe ormai a rimodellare in tempo reale la ragnatela dei collegamenti — e la riduzione dei costi. Risultato: le rotte a lunga distanza sono garantite oggi da un “cerchio magico” di grandi vettori (le tre alleanze Skyteam, Oneworld e Star Alliance più le aerolinee emergenti del Golfo) che fa base — per ottimizzare le spese e i servizi — intorno a un baricentro di 26 città con oltre 10 milioni di abitanti. Il mondo, visto dall’alto, si è ristretto un po’ attorno a questi hub (snodi). Le rotte dirette tra queste 26 destinazioni, che oggi rappresentano il 20% del traffico globale, si sono più che decuplicate dal 1971 mentre le tratte tra aeroporti minori (dove oggi dominano le low cost) sono solo raddoppiati. La mappa del cielo però si è allargata lo stesso. Fino a cinque anni fa, l’unico spicchio d’azzurro davvero intasato era quello sopra l’Atlantico, con il traffico tra Europa e America che costituiva il nucleo duro del business — anche in termini di redditività — per tutti i big. Oggi il mondo sta cambiando rapidamente, il futuro si sta spostando a sud e a oriente. Non a caso le tre compagnie mondiali più aggressive e redditizie sono oggi Emirates, Etihad e Gulf Air che grazie a una pioggia di petrodollari fanno la parte del leone sulla nuova via dell’oro dell’aviazione civile: il ponte che unisce il vecchio continente e gli Stati Uniti con i paesi emergenti del Far East. L’unica destinazione che Aeropoli Spa fatica ancora a raggiungere è la redditività. Negli ultimi quarant’anni le aerolinee sono riuscite a ridurre del 60% i loro costi operativi (personale, carburante e acquisto di nuovi jet), la vita media di un aereo è stata allungata a 20-30 anni, il suo utilizzo è passato da 6,5 a 10,7 ore al giorno, si riesce a riempirlo in media del 20% di passeggeri in più. Ma al momento di chiudere i bilanci, il risultato è stato quasi sempre lo stesso: utili uguale a zero. Per la precisione allo 0,1% del capitale investito, una miseria rispetto all’8% delle imprese tradizio- nali. Un margine sottilissimo che ha mandato gambe all’aria in un paio di decenni oltre 300 compagnie. Aeropoli è uno dei pochissimi mondi dove — almeno finora — i consumatori hanno tenuto il coltello dalla parte del manico. La domanda, numeri alla mano, continua a crescere. Ma l’offerta resta elevata e la competizione ha costretto da sempre le aerolinee a girare al cliente finale tutti i (tantissimi) risparmi operativi realizzati negli ultimi decenni. Così volare costa sempre meno. Secondo la Iata, il prezzo dei biglietti è crollato del 60% rispetto al 1971. E questa tendenza ha accelerato la sua corsa nell’ultimo decennio quando il boom delle compagnie low cost ha rivoluzionato la mappa del sistema di collegamenti a medio raggio. Ormai siamo al paradosso che su molti voli, fino a 90 minuti di durata, il costo dell’aereo è inferiore a quello del taxi tra l’aeroporto d’arrivo e il centro della città. I soldi però non sono tutto nella vita. Conta anche la qualità. E non a caso le compagnie sono state costrette a triplicare le frequenze offerte sulle stesse rotte e a raddoppiare i collegamenti diretti da città a città, infittendo la ragnatela di voli che passano sopra la nostra testa. La buona notizia è che i tagli ai costi e l’aumento dei servizi non sono andati a scapito della sicurezza. Le vittime di incidenti aerei (in proporzione ai passeggeri) sono calate del 70% negli ultimi quarant’anni. E il volo è di gran lunga la forma di trasporto più sicura con un’incidenza di incidenti (per miglia e per 100milioni di passeggeri) pari allo 0,01% contro lo 0,04% di treno e bus e lo 0,78% dell’automobile. La vera rivoluzione invisibile degli ultimi quarant’anni nel mondo del volo è però quella ecologica. Un po’ perché le compagnie (causa il boom del prezzo del carburante) sono state costrette a lavorare per ridurre al minimo i consumi che oggi rappresentano circa il 30% dei loro costi. Un po’ perché la regolamentazione del trasporto aereo ha imposto limiti molto più restrittivi al rumore dei jet e alle emissioni di CO2. I progressi, carta canta, sono incredibili. L’ultima versione del Boeing 737 consuma — in proporzione ai passeggeri — il 48% in meno rispetto al primo modello decollato nel 1967. I costi di gestione del nuovo A320 sono pari alla metà della versione originale. Il Dreamliner B787, la gigantesca ammiraglia della società di Seattle costruita per il 30% in carbonio, permette di risparmiare il 25% sul pieno rispetto ai velivoli più tradizionali. Numeri importanti visto che gli aerei bruciano circa 300 milioni di tonnellate di kerosene l’anno — il 14% del totale utilizzato nel settore dei trasporti — e che ogni tonnellata di carburante si trasforma in 3,15 tonnellate di Co2. Passi da gigante sono stati fatti anche sul fronte dell’inquinamento acustico. Nel 1969 il rumore di un B707 era catalogato come “fastidioso” in un’area di 54,5 miglia quadrate rispetto alle turbine. Quello del B777 oggi è stato ridimensionato a 1 miglio quadrato. Il cielo sarà purè più trafficato di una volta, ma oggi di sicuro è molto più verde rispetto a quaranta anni fa.