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 2012  giugno 27 Mercoledì calendario

Il censimento del 2010 ha rivelato che, negli Stati Uniti, il 36 per cento della popolazione totale è composto da «non bianchi» («non-whites»), con un 7 per cento di aumento in appena dieci anni

Il censimento del 2010 ha rivelato che, negli Stati Uniti, il 36 per cento della popolazione totale è composto da «non bianchi» («non-whites»), con un 7 per cento di aumento in appena dieci anni. La buona notizia è che, nei ripetuti sondaggi effettuati dai sociologi nell’ultimo quarto di secolo, gli atteggiamenti dei bianchi americani nei confronti dei non bianchi sono nettamente e progressivamente migliorati. Il razzismo conscio è in netto e continuo declino, e sarà presto quasi scomparso. La cattiva notizia, pubblicata ieri sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale «Nature Neuroscience» da ricercatori della New York University e di Harvard, è che lo spirito è pronto, ma la carne è debole. Cioè, tra l’atteggiamento anti-razzista consapevole e positivo e le reazioni subconscie negative dei bianchi a volti di non bianchi c’è un fossato. Gli autori di questa ampia ricerca, Jennifer T. Kubota, Mahzarin R. Banaji ed Elisabeth A. Phelps, dopo aver analizzato molti risultati ottenuti negli ultimi anni nelle neuroscienze, concludono che esistono chiare attivazioni cerebrali dei centri deputati al disgusto, la paura e la sfiducia, quando si mostra a un bianco un volto di un non bianco. L’area cerebrale sottocorticale che si attiva per prima, chiamata amigdala, è infatti specializzata in emozioni di carattere negativo. Il cervello delle persone sensate e socialmente sensibilizzate, però, non lascia queste emozioni negative agire a briglia sciolta. Subito dopo, infatti, in millesimi di secondo, presto si attiva anche un’area della corteccia cerebrale, il nucleus accumbens dorsale, che registra un conflitto. Le emozioni negative inviate dall’amigdala non sono benvenute ai centri superiori e il sistema cerca di neutralizzarle. Si attiva la centralina di controllo più nobile, la corteccia prefrontale dorsolaterale (in gergo «Dlpfc») e stabilisce chi deve vincere in questa lotta tra il bene e il male. Per lo più vince il bene, cioè giudizi e atteggiamenti non razzisti, ma l’esistenza sorniona delle reazioni viscerali negative non può essere ignorata. L’esistenza di queste reazioni inconsce era stata rivelata in svariati test subliminali, anche prima che intervenissero i grossi calibri delle neuroscienze e del «brain imaging» (risonanza magnetica funzionale, elettroencefalogrammi, stimolazione magnetica transcranica). Per esempio, senza sondare le attivazioni cerebrali, si proietta la parola «nero» e poi la parola «cattivo», oppure la parola «bianco» e poi la parola «buono», o l’inverso, e si misurano i tempi di reazione delle associazioni mentali. Si vede che «bianco» è mentalmente, inconsapevolmente, associato a «buono» più strettamente di quanto vi è associato «nero». In un diverso tipo di test, si mostrano a un soggetto bianco vari volti di individui bianchi e poi si chiede, minuti dopo, di riconoscere, in un vasto insieme di volti, quali sono quelli già visti. Si ripete poi lo stesso con vari volti di non bianchi e si vede che è più facile ricordare i volti della propria razza che non quelli dell’altra razza. Questo vale anche, simmetricamente, per soggetti non bianchi che svolgono lo stesso compito. Molti altri test di questo tipo avevano rivelato queste tendenze subliminali a privilegiare persone appartenenti allo stesso gruppo sociale. Ma la differenza svanisce se si presentano volti di attori o cantanti o sportivi famosi, senza discriminazione di colore. Le reazioni cerebrali variano anche a seconda del tipo di musica (tipicamente «bianca» oppure tipicamente «non bianca») presentata subito prima delle immagini di volti di etnia diversa. Uno dei centri cerebrali protagonisti di questi processi è l’area specializzata nel riconoscimento dei volti, un’area di forma fusiforme posta alla base del cervello. Essa si attiva più intensamente quando si presentano al soggetto volti di persone (non famose) dello stesso gruppo etnico che non volti di un diverso gruppo. Chiedo all’autrice principale di questa ricerca, la neuropsicologa Jennifer Kubota della New York University, cosa dobbiamo concludere. «I centri delle reazioni emotive negative sono malleabili e i centri superiori del giudizio e della decisione sono in grado di contrastarli. Le reazioni negative emotive dell’amigdala sono, a guardarci meglio, più collegate al riconoscimento del proprio gruppo che non alla razza in quanto tale. Inoltre, ogni volta che un soggetto rievoca un ricordo e poi lo rinvia di nuovo in memoria — un processo molto studiato che si chiama "reappraisal" — il ricordo cambia. Esercitando questo processo, le reazioni anche inconsce cambiano in positivo. Insomma, con un certo sforzo, le reazioni negative subconscie possono essere dominate». Aggiunge che siamo solo agli inizi di queste ricerche e che molto resta da fare. A me viene in mente uno striscione in inglese a lato del campo che gli spettatori della partita Italia-Inghilterra di domenica hanno ben visto a inizio partita: «Uniamoci contro il razzismo». Facciamolo, magari anche nei tempi supplementari o perfino ai rigori. Abbasso l’amigdala, viva i centri corticali superiori.