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 2012  giugno 27 Mercoledì calendario

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

PECHINO — Quando ieri pomeriggio finalmente Deng Jiyuan ha telefonato a casa le sue parole non hanno tranquillizzato nessuno. «Sto bene», ha assicurato il marito di Feng Jianmei, la giovane donna dello Shaanxi che all’inizio del mese è stata fatta abortire con la forza dai funzionari locali: era al settimo mese di gravidanza e la foto di lei stesa sul letto con il feto accanto ha scatenato sulla rete l’indignazione di molti. «Sto bene», appunto, ha detto Deng. E nient’altro. Di lui non si sapeva più nulla da due giorni e durante la sua chiamata non ha spiegato né dove si trovi né se abbia intenzione di ritornare a casa. Il copione a molti ha ricordato quello di tante sparizioni per mano della polizia o di sgherri assoldati apposta.
Le premesse per temere che quella del ventinovenne Deng non sia una fuga ci sono. Tutto è cominciato quando alla moglie, 22 anni, era stato intimato di abortire, perché la sua gravidanza violava le norme sul figlio unico. Le autorità di Zengjia le avevano imposto una multa di 40 mila renminbi, quasi 5 mila euro, una cifra inarrivabile. Appena è stato evidente che Deng e Feng non sarebbero mai stati in grado di pagare, il personale incaricato di far rispettare i regolamenti sul controllo demografico ha trascinato la donna in ospedale dove le è stata praticata un’iniezione abortiva. Era stato impossibile frenare la notizia, al punto che sulla stessa stampa ufficiale erano usciti commenti (particolarmente esplicito e severo quello del Global Times) che, senza contestare radicalmente la legge sul controllo delle nascite, condannavano la crudeltà dell’abuso perpetrato a Zengjia.
Secondo un meccanismo tipico in Cina, all’ondata del web e alla successiva presa di posizione della propaganda, avevano fatto seguito l’annuncio di un’indagine, la sospensione di tre funzionari coinvolti e le scuse delle autorità della città di Ankang alla donna. Tuttavia, dopo alcune dichiarazioni alla stampa straniera, sono comparsi striscioni rossi in cui alla famiglia di Deng e Feng veniva dato dei «traditori» e dello stesso tenore erano le urla di una folla di una quarantina di persone fuori dall’ospedale. Una delle scritte invitava a «picchiare come si deve» la famiglia e a cacciarla da Zengjia. Se per caso non fosse bastato il livello di intimidazione, tutti i parenti stretti di Feng e Deng erano seguiti continuamente dai soliti volenterosi scherani a ogni passo: «Come prigionieri», secondo le parole della sorella dell’uomo, Deng Jicai.
Gli aborti forzati, benché ufficialmente illegali, sono invece una pratica alla quale dirigenti locali molto zelanti non disdegnano di far ricorso per rispettare le quote di natalità previste. È proprio contro gli aborti forzati (ma non contro l’aborto in generale) che aveva affinato le sue conoscenze di giurista autodidatta Chen Guangcheng, l’attivista cieco che un mese fa è riuscito a raggiungere gli Usa dopo anni di carcere e di arresti domiciliari mai sanzionati e dopo un’evasione rocambolesca. Il caso di Feng, e adesso la scomparsa del marito, possono rimettere in moto la discussione sull’opportunità o meno della legge del figlio unico. A livello accademico il dibattito esiste, ma prevale un’allarmata cautela.