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 2012  giugno 26 Martedì calendario

FERDINANDO SCIANNA


«Vasto programma, avrebbe detto il generale De Gaulle». Non manca certo di
sense of humour
il fotografo Ferdinando Scianna, che, di fronte all’oggetto di questa intervista – addirittura “la bellezza” – preferisce accogliermi nel suo luminoso studio situato nel quartiere “cinese” di Milano, mettendo subito le mani avanti, e spingendo sul pedale dell’ironia. Anche se poi, nel corso della conversazione, dimostrerà di essere, oltre al grande fotografo che tutti conosciamo, un intellettuale di vastissime letture e sicura libertà mentale.
«Se potessimo definire la bellezza con precisione, avremmo a nostra disposizione una bussola anche per tutto il resto: giustizia, bene, verità, politica. E invece viviamo uno strano momento storico, in cui per la prima volta a fare la rivoluzione è la tecnologia, non più i movimenti politici e culturali. Ma mentre la tecnologia va veloce, quei movimenti vanno lenti, come è nella nostra natura di esseri umani; così ci troviamo stretti tra un sedimento antico, secondo alcuni addirittura ontologico del concetto di bellezza, e dei codici ormai usurati, che non ci aiutano più a decodificare la realtà contemporanea.
C’era un tempo in cui un uomo particolarmente potente, che so io, un papa, decideva di affidare un affresco a Piero della Francesca e quello faceva la Madonna del Parto. Quell’affresco non soltanto dava al papa un immenso prestigio, perché veniva apprezzato dai suoi pari, ma arrivava a toccare anche il cuore della povera vecchietta analfabeta che si inginocchiava davanti al dipinto a pregare. Ecco, questa verticalità e trasversalità si è completamente persa nella frantumazione delle mille tribù che oggi popolano il mondo. I codici comuni si sono frantumati. E come accade nei momenti di grande imbarazzo e confusione, le prime a pagare un prezzo salato sono le parole. Se lo ricorderà, quando è scoppiato il caso Englaro si fronteggiavano due gruppi radicalmente contrapposti, che però parlavano entrambi in difesa della vita. Ma cosa diavolo significasse la vita per gli uni e per gli altri, non era affatto chiaro. E allora mi domando: non sarà che quanto dico vale
anche per la bellezza?».
Però lei prima parlava di un deposito profondo di quell’idea, al quale forse possiamo ancora attingere. Magari ci si capisce vicendevolmente dicendo che una certa cosa (un quadro, il volto di una donna, un paesaggio) è bella perché ci emoziona, ci commuove. O no?
«Ora lo affermano anche i neuroscienziati, ma i filosofi e gli scrittori c’erano arrivati già da bel un pezzo. Sicuro, l’emozione è una forma del pensiero. Ed è senz’altro un aspetto essenziale della bellezza, ma è un’affermazione insufficiente, perché ci costringe nel recinto del gusto, dove vige la regola del mi piace non mi piace: vera apoteosi del delirio postmoderno. A volte dei giovani fotografi vengono a farmi vedere il loro lavoro. Che le pare? chiedono. E io: non sta in piedi, per le più diverse ragioni. In definitiva, giudico quelle foto riferendomi a criteri miei personali e pregressi. Ai quali evidentemente non voglio rinunciare, ma che non devono neppure irrigidirsi, ossificarsi. Impedendomi di aprirmi al nuovo. Per esempio: le confesso che sono sempre stato piuttosto diffidente nei confronti di Cattelan, a mio modo di vedere più un vetrinista che un artista. Però devo riconosce che quella sua opera sui cadaveri velati, esposta alla Punta della Dogana di Venezia, mi ha fatto ricredere. Perché ha una sua ragion d’essere, una sua necessità».
Parlando di necessità forse abbiamo fatto un altro passo avanti nell’affrontare il nostro tema. Witold Gombrowicz sosteneva che anziché dividere i libri in belli e brutti, bisognerebbe distinguerli tra superflui e necessari.
«E io concordo in pieno. Le dirò di più: non me ne frega niente della “bella fotografia”. Mi preme di più capire se è buona, se corrisponde al suo scopo. Non in termini immediatamente strumentali, altrimenti si trasforma in propaganda, illustrazione, documentazione. Ma valutando la sua corrispondenza a un’autentica urgenza interiore. E dunque se si esprime secondo criteri estetici tali per cui quella urgenza, quella necessità, si fa forma. Con un’aggiunta fondamentale. Sa perché mi irrito così tanto quando sento giudicare le fotografie come fossero quadri? Perché la natura specifica della fotografia, e in questo risiede la sua straordinaria, gigantesca rivoluzione, è che per la prima volta non dà conto di un’immagine “fatta” dall’uomo, ma “trovata” dall’uomo: nella realtà, nel mondo. Se dunque si paragona la fotografia alla pittura, si finisce per togliere alla prima gran parte della sua ragion d’essere. Ecco perché la “bella fotografia” che decora la parete dell’ufficio di un direttore di banca a me non dice niente».
Lei stesso però, nel suo
Autoritratto di un fotografo,
pubblicato da Bruno Mondadori, evidenzia l’ambiguità intrinseca alla fotografia.
«Certo, a causa del suo doppio statuto: di documento e assieme di interpretazione soggettiva. La fotografia nasce in pieno positivismo, nella temperie di una nuova società industriale. E corrisponde alle necessità di un mondo che si vuole misurabile e documentabile. Così modifica la dimensione del viaggio, aiuta la criminologia nascente, definisce la nostra stessa
comparendo sui documenti personali. Ma nella società contemporanea, subissata da un bombardamento ininterrotto di immagini che ha finito per alterare alla radice il rapporto tra vero e falso, reale e artificiale, quell’ambiguità esplode.
Le riferisco un piccolo episodio raccontato da McLuhan. Dunque, un signore incontra una donna con il suo bambino e le dice: che bello il suo bambino. E l’altra risponde: dovrebbe vederlo in fotografia! Capisce? L’immagine viene prima della cosa e la realtà si trasforma in sembiante! Altro episodio: qualche anno fa ero a Siviglia per una mia mostra sulla povertà. Una signora mi si avvicina e osserva: lo sa, so-
no davvero commossa nel vedere tutti questi poveri. Signora, le rispondo, ma che dice? i poveri non sono in questa sala. Sono fuori, per strada. Basta che apra gli occhi e li vedrà. Il fatto è che lei non voleva vederli e fingeva di vederli attraverso la mediazione dell’immagine, perché tutto questo la rassicurava».
Moda e bellezza: almeno questo apparentamento dovrebbe essere ancora stabile.
«Nell’ambito della moda succede un po’ la stessa cosa che accade alla signora di McLuhan. Una volta ho chiesto a Sciascia: qual è la differenza tra stile e stilismo? E lui, con la consueta laconicità: lo stilismo si nutre di trovate, lo stile di idee. Veidentità
ro, verissimo. Però è altrettanto vero che a volte incrociamo idee contigue alle trovate, e trovate contigue alle idee. La moda solitamente mi lascia freddo, però mi è capitato di vedere delle sfilate di Issey Miyake e mi sono detto: perbacco, questo non è uno che fa dei vestitini, questo è un genio. Come vede, anche nel mondo per eccellenza delle trovate, quello della moda, può sempre saltare fuori uno che ha vere, grandi idee».
Siamo d’accordo: è impossibile definire la bellezza secondo criteri stabili e sicuri. Resta che ciascuno di noi ha un punto di riferimento a cui attenersi. Il suo qual è?
«Il mio? Cartier Bresson, quando afferma che fotografare significa mettere sulla stessa linea di mira l’occhio, la mente e il cuore. L’occhio, ovvero l’estetica; la mente, cioè la comprensione del fatto; e il cuore, il pathos. Se non c’è pathos l’immagine è fredda; se c’è solo testa, il risultato è inutilmente concettuale; se interviene unicamente l’occhio, è estetismo fine a se stesso. Questa intuizione per me riveste un valore che va ben al di là della fotografia. Resta da capire se può essere condiviso. Perché la bellezza, che sia racchiusa in una montagna di legna ben impilata, o in un quadro di Paolo Uccello, o nel gesto di
un bambino, acquista senso e forza soltanto se entra a far parte di un sistema di relazioni, in cui la soggettività cerca e trova una qualche forma di armonia col mondo. E oggi proprio questo è il problema: il mondo nessuno riesce più a governarlo, ci scappa via da tutte le parti, e la reazione spontanea è di richiudersi in piccole tribù che non comunicano tra loro. Come rimetterle in contatto tra di loro? Vasto programma, avrebbe detto ancora una volta il generale De Gaulle».