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 2012  giugno 26 Martedì calendario

Fondi sovrani senza crisi Nel 2011 investimenti +42% - I fondi d’investimento sovrani, cioè quelli di proprietà degli Stati (e si parla di Stati danarosi: Paesi petroliferi, Cina e simili) non soffrono troppo la crisi e anzi nel 2011 hanno accelerato la corsa agli investimenti diretti, rispetto al 2010, in tutto il mondo

Fondi sovrani senza crisi Nel 2011 investimenti +42% - I fondi d’investimento sovrani, cioè quelli di proprietà degli Stati (e si parla di Stati danarosi: Paesi petroliferi, Cina e simili) non soffrono troppo la crisi e anzi nel 2011 hanno accelerato la corsa agli investimenti diretti, rispetto al 2010, in tutto il mondo. L’anno passato si sono impegnati in 237 operazioni d’investimento (+15%) del valore complessivo di 80,9 miliardi di dollari (+42%). Lo rivela uno studio dell’Università Bocconi, a cura del suo Sovereign Investment Lab (Centro Paolo Baffi). «Il numero di operazioni - si legge - rappresenta un record, mentre il loro valore è ancora inferiore al 2008 e al 2009». Non ci sono dati specifici sull’Italia ma a integrazione della ricerca il direttore Bernardo Bortolotti dice alla Stampa che siamo (purtroppo) in forte controtendenza: «Il 2011 è stato un anno particolarmente negativo per gli investimenti dei fondi sovrani in Italia, c’è stata un’unica operazione, quella dei libici in Finmeccanica», prima che il regime di Gheddafi cadesse. Bortolotti aggiunge che «nel 2012 si è visto qualcosa di più, Aabar (Abu Dhabi) in Unicredit, il Qatar in Sardegna. Ma nel complesso attiriamo poco i fondi sovrani, per le solite ragioni: incertezza della regolazione, troppa burocrazia eccetera». Di passaggio, lo studio della Bocconi segnala che anche l’Italia ha l’equivalente di un suo fondo sovrano, la Cassa depositi e prestiti, ma quando di solito si parla di fondi sovrani si intende qualcosa di diverso, cioè istituzioni finanziarie intente a grandi operazioni di investimento fuori dai confini. I fondi più importanti della categoria sono quelli degli Emirati arabi, del Kuwait, del Qatar, alimentati con gli introiti del petrolio (ma il più danaroso in assoluto è fuori dal Medio oriente, è quello della Norvegia, sempre fondato sul greggio). In Asia si segnalano i fiondi sovrani della Cina, di Singapore, della Malaysia, resi ricchi non tanto dalle materie prime quanto da forti economie vocate all’export industriale o alla finanza e ai relativi surplus. Invece fanno molto assegnamento sulle materie prime i fondi di Australia e Russia. Ma lo studio della Bocconi considera ben 31 fondi andando a pescare anche i meno frequentemente citati come quello dell’isola di Kiribati. Essere oggetto di attenzione da parte dei fondi sovrani può risultare lusinghiero ma anche suscitare preoccupazioni: questi fondi portano soldi ma danno l’impressione di trasferire pezzi di sovranità da uno Stato all’altro e perciò in certi casi gli investitori arabi o cinesi si sono visti sbarrare la strada, da questo o quello Stato, all’acquisto di imprese nazionali giudicate strategiche, troppo importanti per farle finire in mani straniere. Ma l’anno scorso gli investimenti dei fondi sovrani hanno trovato porte spalancate soprattutto per la necessità di ricapitalizzare le banche occidentali più provate dalla crisi: così il settore finanziario ha fatto la parte del leone con 59 operazioni e una spesa pari al 43% del totale. Seguono il settore degli idrocarburi (24%) e l’immobiliare (20,8%). Nel «real estate» i fondi sovrani hanno preferito mercati consolidati come New York o Londra (anche gli sceicchi, gli oligarchi russi eccetera vanno in cerca di beni rifugio in periodo di crisi). Ai fondi sovrani non piacciono granché i Paesi emergenti: la destinazione geografica degli investimenti privilegia (al 55%) i Paesi già industrializzati. Inoltre va segnalato che i fondi dei Paesi asiatici preferiscono puntare sugli Stati Uniti mentre ai fondi mediorientali piace di più l’Europa. Italia esclusa.