LAO PETRILLI, La Stampa 26/6/2012, 26 giugno 2012
Nei villaggi dove i bimbi lanciano pietre agli stranieri - Basta una manciata di chilometri verso sud per lasciare quella metropoli moderna che è Herat (agli italiani viene detto: «è la nostra Milano») e rovinare in una delle buche dell’Afghanistan profondo
Nei villaggi dove i bimbi lanciano pietre agli stranieri - Basta una manciata di chilometri verso sud per lasciare quella metropoli moderna che è Herat (agli italiani viene detto: «è la nostra Milano») e rovinare in una delle buche dell’Afghanistan profondo. E’ un distretto inospitale quello in cui, ieri mattina, ha perso la vita Manuele Braj. Un posto in cui le mani dei bambini protese verso i blindati italiani a cercare caramelle - nel tempo lungo di una missione decennale preferiscono di solito tirare le pietre «agli invasori». Viaggiando da Adraskan fino a Shindand, passando magari per Azizabad, è oggi quasi impossibile non essere presi di mira dagli abitanti di queste terre misere e pericolose. «L’Afghanistan del domani!», diceva amaro una volta uno dei nostri che conosceva bene la regione. Capita che i militari scendano a chiedere spiegazioni, a vedere di raccogliere la speranza di qualche richiesta inevasa che giustifichi in qualche modo le sassaiole dei piccoli afghani. Ma quasi sempre si ritrovano a parlare con i loro fratelli maggiori che, spuntati fuori da cespugli e casupole con calma beffarda, quasi sfidano gli uomini in divisa dichiarandosi innocenti; sostenendo di non avere visto niente. Alle volte vengono identificati attraverso la scansione dell’iride. In altri casi si chiama un capo-villaggio, un anziano, un poliziotto. E tutto finisce lì. Senza capire veramente. Senza capirsi. E però non ha solo un’anima nera questo distretto, pur sempre considerato dagli analisti «meno caldo di altri» sui quali pestano i piedi i soldati italiani. Nelle pur infuocate prediche che si susseguono dentro la moscheachiave di Dahal ay Zardalogak, assai raramente gli imam sono stati uditi pronuciare parole di odio verso le forze Isaf. Si scagliano spesso, invece, contro le autorità locali, denunciandone la corruzione e la debolezza. Una «debolezza che permetterà ai taleban di prendere il sopravvento». E questo, nell’enigmatico Adraskan, non piace. I report dell’intelligence, in effetti, riferiscono di un’area definita fortemente «tradizionalista» ma non incline a subire passivamente le minacce dei taleban, spesso fronteggiati da una popolazione esasperata da taglieggiamenti (a tutti si cerca di imporre la «tassa per la Jiahd») e rapine, dopo le quali i ripetitori dei telefoni vengono bruciati o comunque messi fuori uso. Solo che - si lamentano soprattutto gli anziani del distretto - «non abbiamo il sostegno necessario» da parte delle autorità. Di recente ad Adraskan (come in tutta la provincia di Herat segnata da omicidi, rapimenti e sparatorie) si è deciso di procedere al rinnovo dei vertici della polizia. Il nuovo capo, nel distretto, è un uomo legato al leader della gran consiglio provinciale degli ulema, il potente Mawlawi Khodadad. La cosa, secondo le «antenne» dell’Isaf, non ha certo entusiasmato la popolazione, che conosce il suo futuro, sa del cambio di veste della missione militare. Del ritiro nel 2014. E che ha paura. Il portavoce del contingente italiano, il tenente colonnello Francesco Tirino, ha rilevato come quello di ieri sia il primo attacco ad un centro di formazione delle forze afghane. «I talebani - osserva un analista - potrebbero averci mandato un messaggio: volete restare ma da addestratori? E allora noi colpiremo gli addestratori».