MASSIMO GRAMELLINI, La Stampa 26/6/2012, 26 giugno 2012
“I tedeschi? Persone corrette ma di noi non si fidano” - Come per molti altri «diversamente giovani» , per Gianluigi Gabetti la Germania non è solo il nome della nazionale che una volta ogni decennio perde una partita di calcio importante contro l’Italia, ma una storia grande che si intreccia con quella della sua vita
“I tedeschi? Persone corrette ma di noi non si fidano” - Come per molti altri «diversamente giovani» , per Gianluigi Gabetti la Germania non è solo il nome della nazionale che una volta ogni decennio perde una partita di calcio importante contro l’Italia, ma una storia grande che si intreccia con quella della sua vita. Dottor Gabetti, chi è il primo tedesco che ha conosciuto? «Un austriaco. Anzi un’austriaca. Si chiamava Gertrude. Io avevo 12 anni e papà l’aveva messa in casa perché voleva che io e mio fratello imparassimo il tedesco invece dell’inglese: pur odiando il nazismo, immaginava che la Germania fosse il futuro». Per un po’ non fu il solo a pensarlo. «Mussolini entrò in guerra per paura che Hitler conquistasse il mondo da solo. Ne voleva una fetta anche lui. A scuola i balilla cantavano: “Vogliamo Nizza e Corsica, Savoia e Tunisia”. In fondo non avevamo grandi aspirazioni». Cosa sapeva allora della Germania? «Del nazismo poco o niente. Della cultura tedesca tantissimo. Torino era stata la prima città a scoprire Wagner. E poi Goethe, col Faust e quel libro noiosissimo che sono “Le Affinità Elettive”. A un mio omonimo e lontano parente, Giuseppe Gabetti, si deve la voce più lunga della Treccani: è dedicata al romanticismo». Poi la guerra cambiò l’opinione degli italiani sui tedeschi . «E dei tedeschi sugli italiani. Ero caporale, l’8 settembre mi sorprese in licenza. Fossi stato col mio reggimento a Cuorgné, sarei finito in Germania su un vagone piombato. Andai a presentarmi a un altro reggimento. Ero prezioso perché sapevo il tedesco. Arrivò una camionetta con sei uomini della Wehrmacht armati fino ai denti e il colonnello mi mandò a parlamentare. “Cosa volete?”. “Resa senza condizioni”. Lo riferii al colonnello. Era distrutto. Aveva già chiamato i suoi superiori ma quel giorno tutti i telefoni squillavano a vuoto. Dietro di noi un ufficiale si era tolto la giacca, un altro si stava strappando le mostrine dalla divisa. “Digli che va bene”. Andai a riferire al tedesco. Provavo un senso di disagio, di pena, di schifo. “Deponete le armi”, ordinò. “Torneremo domani per mettere i soldati meridionali sui treni in partenza per il sud”. Quei poveri ragazzi andarono alla stazione di Alba convinti di tornare a casa. Invece finirono in Germania a lavorare come schiavi». E lei? «Io a Torino, accampato presso la nonna. Vennero a cercarmi due ufficiali della Wehrmacht per portarmi dal generale Wolf. Pur detestandoli tutti, avevo imparato a fare una distinzione fra Wehrmacht e SS: i primi erano soldati, i secondi… Wolf mi propose di diventare il suo portavoce presso gli italiani. “Io sono vostro amico, vostro alleato…”. Mi diede appuntamento per il martedì successivo». Come no. «Scappai in campagna con mio fratello e mio padre. Mi nascosi all’esercito repubblichino, allungato sulla paglia di un sottoscala. A metà del 1944 mi unii ai partigiani, in una formazione di Giustizia e Libertà con il nome di Attilio, il fazzoletto verde e il cappello da alpino». Ha sparato ai tedeschi? «Le occasioni furono poche e per di più ero male armato. Ma quando sentivo sparare, sparavo». La sua Italia-Germania personale? «Alle porte di Casale un carro armato spuntò da una curva tirandoci addosso all’impazzata. I compagni mandarono avanti me: “Vai tu Attilio, che sai il tedesco…”. Mi fermai davanti al bestione cingolato, come l’omino di Tienanmen. Dalla botola spuntarono in due: volevano sapere se il ponte alle nostre spalle era minato. Gli dissi di no, ma non si fidarono e ci fecero allineare sul ponte, prima di passarci sopra loro». Arrivò il dopoguerra. «Pensavamo solo all’Italia e all’America che ci aveva salvati. Qualcun altro all’Urss. Nessuno all’Europa. Solo i giovani e gli intellettuali seppero credere nel sogno di Schumann, De Gasperi e Adenauer: tre tedeschi in fondo». C’era del risentimento verso la Germania? «Verso il nazismo. Non verso i tedeschi come popolo. Avevano subito bombardamenti tremendi: al cinegiornale vedevamo quei poveretti di Dresda aggirarsi fra le rovine e provavamo pietà». Dopo la volta del carro armato, quante altre volte ha trattato coi tedeschi? «Non parlo più la lingua. Ormai l’ho dimenticata…». Ma loro li conosce bene. «Sono corretti. Non coltivano scorciatoie e le loro banche sono fra le più serie. Guardano ai popoli latini come molti di noi ai vu’ cumprà. Fanno la battutaccia, poi si ricordano di parlare con un italiano e fingono di correggersi: “Naturalmente al nostro livello non è così…”. Ci disprezzano o ci invidiano? «I tedeschi non sono capaci di ammettere che l’Europa li ha aiutati immensamente, anche nel momento dell’unificazione. Si sentono portatori di una supremazia che non ha ragione d’essere se non nella loro produttività». Perché non vogliono gli eurobond? «Non si fidano. Per loro siamo dei meridionali che non pagano i debiti. E noi abbiamo fatto anche poco per togliere loro questi pregiudizi». Qui si respira nostalgia per Italia-Germania 4 a 3, quando c’era ancora la lira. «Col ritorno alla lira ciascun italiano perderebbe fra il 25 e il 50 per cento del valore dei propri beni». E se la Germania promuovesse il doppio euro? «Rischierebbe di spaccarsi l’Europa. E anche l’Italia. Più azzardato ma più logico mettersi insieme. Una confederazione di Stati con una sola politica di bilancio e un governo federale eletto da tutti gli europei. Nel 1787 gli Stati Uniti crearono la Federal Reserve per impedire che ogni stato facesse i comodi suoi. Ma la Bce non potrà mai essere come la Federal Reserve finché Draghi dovrà vedersela con 27 ministri del Tesoro». Un’Europa tedesca? «Un’Europa commissariata. Per difenderci da noi stessi. Solo il commissariamento può costringerci a snellire la burocrazia». Ma nell’Europa unita non comanderebbero i tedeschi? «I tedeschi si devono sentire più europei e meno tedeschi. Non i colonizzatori dell’Europa, ma alla pari degli altri, con un compito di coordinamento. Devono prendersi questa responsabilità storica, ricordandosi che comandare significa anche servire. Se invece per loro significa solo fare i Gauleiter (i governatori nazisti, ndr) allora non serve a nessuno. Ma non gli si può chiedere un atto di umiltà unilaterale. Tutti dobbiamo fare un passo indietro nell’orgoglio».