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 2012  giugno 24 Domenica calendario

DA CRISI E TERREMOTO NON SI ESCE COL RIGORE


«Scusa se insisto ma il problema economico per noi emiliani è questione vitale, non vogliamo l’elemosina, vogliamo solo il nostro». E poi: «Nostro, intendo ciò che ci spetta. Abbiamo sempre pagato ciò che ci è stato richiesto e adesso è ora di ricevere». Così su twitter mi scriveva Manuele Melloni chiedendomi maggiore visibilità rispetto alle “magagne” (le ha chiamate così) della ricostruzione in Emilia dopo il terremoto. La serie di twitter di questo (deduco) imprenditore attira sempre la mia attenzione perché mi aggiornano sulla situazione: effettivamente dopo tanto seguito nelle ore successive al sisma, le telecamere in quelle zone si sono spente e sul campo sono rimaste le macerie con il loro cumulo di questioni aperte. Gli emiliani e i mantovani sono persone che non si lamentano, e soprattutto non lo fanno a sproposito. Mi sono informato con alcuni colleghi e conoscenti, la ripartenza presenta più problemi del previsto: burocrazia, lentezza, mancanza di soldi, promesse non mantenute. Anche la filiera istituzionale si è inceppata quasi subito: dagli enti locali al governo centrale lo scaricabarile fa passare la voglia. Due sono i macigni: il primo è strettamente burocratico, il secondo è la mancanza di fondi. In poche parole: la documentazione da produrre è inversamente proporzionale ai soldi a disposizione. E non basta di certo quanto raccolto dalla generosità degli italiani con sottoscrizioni di ogni tipo. Sono partito dal terremoto per mettere a fuoco una questione di attualità: nel ripartire, gli emiliani chiedono allo Stato quella marcia in più che lo Stato non ha. E non l’ha perché la via imboccata non concede eccezioni. Le poche agevolazioni promesse nei giorni successivi al sisma sono poca cosa se il rigore e l’austerity bloccano lo sviluppo. Per ripartire ci vogliono tanti soldi perché una ricostruzione fatta a regola d’arte tende a migliorare il preesistente, tende a superare i limiti del prima. I distretti industriali colpiti dal terremoto –distretti che ci fanno fare sempre bella figura all’estero, distretti che offrono posti di lavoro e generano pil –dovrebbero essere rimessi in piedi in fretta (il mercato è spietato e non aspetta fornitori in affanno per qualsivoglia motivo, pure un evento sismico) e nelle condizioni di modernità. Per centrare l’obiettivo, ci vorrebbe una deregulation vera (deregulation non significa de responsabilizzazione), un progetto e… soldi, soldi, soldi. Ecco, uno Stato che vieta persino agli enti locali virtuosi di spendere quanto hanno nelle casse, dove volete che li pigli i soldi necessari per le ricostruzioni? Ci vorrebbe una banca che batta moneta su input del Tesoro. Ma non ce l’abbiamo. Né abbiamo una Bce che nelle europee zone terremotate arrivi con una vagonata di euro. Questo è il paradosso europeo che Berlusconi ha messo a fuoco alla sua maniera. Dalla crisi non si esce con il pareggio di bilancio, con il rispetto del patto di stabilità e con altre misure contabili: la ripresa decolla con scelte politiche. Tra cui l’immissione di denaro. Se la Federal Reserve non avesse stanziato soldi, col piffero che la Louisiana flagellata dall’uragano ripartiva. Idem in quel Giappone resettato dallo tsunami. Gli emiliani temono che la loro buona volontà e che il loro impegno nel ripartire da soli non basteranno. Ci vuole un preciso impegno programmatico. Da qui una domanda: quelle zone del mantovano e dell’Emilia colpite dal terremoto sono terre d’Europa? Se sì, la Commissione europea deve intervenire a sostegno dell’Italia, o con soldi o liberandola da stupidi limiti. Non è possibile? Magari perché la Merkel s’impunta (a lei i voti li danno gli imprenditori tedeschi mica quelli italiani! Quando i nostri politici capoccioni lo capiranno…)? Okay, allora questa Europa non serve a un tubo! Dunque si torni a quella sovranità che oggi manca quanto l’ossigeno. Una via d’uscita va trovata, perché così l’economia italiana non ripartirà più. La ricetta del governo Monti è la peggiore delle ricette sul mercato: carica di tasse le imprese, favorisce le banche, non crea sviluppo e infine penalizza i consumi. Non c’è una cosa una per cui ha un senso continuare questa esperienza di governo (che tra le altre cose non produce nemmeno un effetto placebo sui mercati); eppure si ha persino paura di discutere di exit strategy. Ieri Bersani, solo per segnare un punto nella partita di differenziazione col Cavaliere (ancora lì siamo…), se n’è uscito con questa frase: «L’uscita dall’euro porterebbe a una recessione di proporzioni cosmiche». Ma porca miseria, le aziende hanno le pezze al sedere, i posti di lavoro saltano, le famiglie fanno fatica a far quadrare i bilanci, e Bersani parla di recessione di proporzioni cosmiche? Si rendono conto di come parlano? Masi fanno un giro in questo Paese ridotto a brandelli? Il piacentino Bersani metta fuori la testa dai palazzi romani, si mischi con artigiani e operai e poi vediamo se questa intoccabile austerity è davvero la ricetta migliore per uscire dalla crisi o è il ricattino per tenerci tutti al guinzaglio.