Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 23/6/2012, 23 giugno 2012
FACCE DA GRILLINO: COSÌ NORMALI, COSÌ VICINE
Non sembra proprio un sindaco”. I cittadini di Parma, gli stessi che lo hanno massiccia-mente votato, non si capacitano che quel ragazzo qualsiasi sia davvero il loro sindaco. E non soltanto perché la giunta si sta formando con lentezza ciclopica. Federico Pizzarotti è uno qualsiasi e si compiace di esserlo. La sua è un’immagine in sottrazione. Persino la carica di primo cittadino necessita di detrazione: “portavoce”, non “sindaco”. Il normotipo del movimentista Cinque Stelle è il ragazzo della porta accanto. Il militante che, sentendosi radicalmente diverso dal politico di professione, ostenta la sua normalità attraverso codici estetici, e comportamentali, precisi. Niente auto blu, niente vestiti eleganti. Un look più povero che casual. Magari pure i sandali a piedi, come Centofanti quando si presentò nel ritiro dell’Inter in ciabatte, per sottolineare quanto fosse diverso da tutti gli altri (lo era, ma per i tifosi nerazzurri non costituiva un pregio).
LA FISICITÀ, in politica, è decisiva. In Italia anche troppo. In un libro di tre anni fa, il sociologo Marco Belpoliti ha analizzato doviziosamente Il corpo del capo. Riferimenti a Jean Baudrillard, Zygmunt Bauman, Andy Warhol. E un’analisi che, partendo da Hitler e Mussolini fino a Stalin e Kennedy, arriva a Craxi e Berlusconi. Ogni partito ha (avuto) una iconografia precisa. Giorgio Gaber, in Io se fossi Dio, si scagliava contro i “politici che son nati proprio brutti, o perlomeno tutti finiscono così”. C’erano i “grigi compagni del Pci”, tristi e vedovili molto prima che Veltroni e Bersani portassero tale grigiore genetico ai livelli attuali di sudorazione. E gli “untuosi democristiani”; uomini dal volto pasciuto, doppio mento e psoriasi, sudorazione vigorosa e tratti psicosomatici su cui hanno fatto leva molti registi (ad esempio Paolo Sorrentino ne Il divo e Marco Tullio Giordana in Romanzo di una strage). Raramente il corpo era caratterizzato da una leggerezza misteriosa, segno di candore intatto: il caso di Enrico Berlinguer, sollevato come fuscello da Roberto Benigni in quello scatto fatalmente storico (e oggi così nostalgico). Negli anni Ottanta l’apparenza era sostanza. I craxiani si presentavano satolli come il loro leader, astuti e tondi, i cappelli a larga tesa riecheggianti i boss di inizio Novecento. Quindi i berlusconiani, propaggine più arrogante ancora dei craxiani: doppi petti, gessati. Yuppie invecchiati e voraci, costruiti a immagine e somiglianza del Capo. I leghisti, il cui arrivo può essere per certi versi paragonato a quello dei “grillini” o “grillisti” (parole detestabili, ma la semplificazione è talora un dazio da pagare), dovevano anch’essi presentarsi come diversi. All’inizio stavano sempre insieme, per non essere contaminati da “Roma ladrona” (prassi che alla lunga non ha pagato). Nel leghista l’antiestetica era cifra distintiva: la cravatta verde, i modi da Bar Sport, il volto alcolicamente rubizzo: “Siamo brutti sporchi e cattivi, quindi migliori”. Il rovesciamento della logica, anche solo del buon senso.
Ora è il turno del movimentista 5 Stelle. Anomalia nell’anomalia, poiché si ravvisa in loro un desiderio forse inconscio di negare non soltanto il proprio corpo, ma anche quello del “Capo” (anche se preferiscono chiamarlo “megafono”). Il “grillino” anela alla scomparsa di sé e, al tempo stesso, intende distanziarsi dal corpo tracimante del padre nobile (o padrone). Grillo incendia e divide, il grillino placa e rassicura. Un giochino che ha colpito molti osservatori buonisti o terzisti, che ripetono come gli eletti non somiglino per nulla (sottotesto: “per fortuna”) a Grillo. Da qui l’analisi grossolanamente errata: Grillo è il cattivo maestro, il grillino il chierichetto redento che cantava nel coro della Chiesa (e vissero tutti felici e contenti). Ovviamente il grillino non può vivere senza Grillo, così come Grillo non ha futuro politico senza ragazzi volitivi e presentabili. Resta però la chiara diversità iconografica. Esistono, sintetizzando, tre tipologie. Tutte maschili, perché per ora il movimento ha quote rosa labili: il Grillino “Normal Man”, il “Barabba” e il “Fighetto”. Il Normal Man è Pizzarotti, o Roberto Castiglion (sindaco di Sarego). Ragazzi semplici, rassicuranti, “mediani della politica” che trovano il plus iconografico nell’assenza apparente di spigoli.
IL BARABBA è incarnato da Davide Bono, consigliere regionale in Piemonte. Barbuto, capello lungo e arruffato, occhiali (possibilmente spessi). Un’aria da nerd, forse sbeffeggiato dalla società benpensante, che grazie alla politica “buona” sa riscattarsi. Su questa non spiccata avvenenza estetica, peraltro, Grillo ha sempre fatto leva nei comizi, presentando i candidati come persone che non farebbero paura a nessuno e come gesto massimo di eversione “si fanno una pugnetta”. Poi c’è la terza tipologia: il Grillino Fighetto. È rappresentata da Giovanni Favia, consigliere regionale in Emilia. Affettato, elegante, altezzoso, televisivo. È grillino, ma verosimilmente un suo doppelganger vota Tosi in un universo parallelo. Rappresenta il Maroni del M5S, ambizioso e pronto a far carriera (anche cavalcando i “casi Tavolazzi”). Se ieri il corpo del capo era comico ma carismatico, oggi i corpi dei non-capi paiono tendere alla scomparsa. Continuando però a costituire un elemento decisivo. Anche se non sembra.