Paolo Mieli, Corriere della Sera 26/6/2012, 26 giugno 2012
CULTURA ISTRUITO E INTEGRATO: L’ALTRO VOLTO DEL FANATICO
A non pochi piace pensare che l’estremismo sia la conseguenza della debolezza psicologica di alcuni individui, attribuibile «a dispiaceri personali, inadeguatezze sociali, scarsa istruzione, disumanità o psicopatia». Anche a detta degli analisti più avveduti, chi compie una scelta estrema lo fa «per colmare il vuoto della propria vita affettiva» e il terrorismo, di matrice sia religiosa sia politica, è alimentato «dalla marginalità sociale o dalla scarsa istruzione».
Niente di più sbagliato. Nella maggior parte dei casi, «gli individui che aderiscono a questo tipo di pensiero estremo non sono pazzi, né stupidi o disadattati». Del resto il nostro sentimento di indignazione non sarebbe compatibile con la sensazione di irrazionalità. Se questi individui «agissero spinti da una forma di follia stabile o temporanea, dalla disperazione o da altre cause che li trasformano in automi della barbarie, non potrebbero essere ritenuti moralmente (e, in una certa misura, nemmeno giuridicamente) responsabili dei loro gesti». L’irragionevolezza «può suscitare un sentimento di orrore ma non di indignazione». Concetti e parole tra virgolette che sono a fondamento di un bel saggio di Gérald Bronner, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, edito dal Mulino.
Ma prima di addentrarci in questo campo d’indagine, occorre fare una premessa. Non ci siamo ancora del tutto liberati dalla concezione della storia dell’umanità come una serie di passaggi da uno stato infantile a uno adulto. In base a questa prospettiva, nell’Ottocento si riteneva che l’Europa si trovasse nello stadio più avanzato della storia, mentre i popoli del Terzo Mondo erano rimasti nella condizione infantile. All’inizio del Novecento Lucien Lévy-Bruhl si spinse a ipotizzare una differente evoluzione sociale tra i popoli occidentali e quelli «primitivi» ai quali lui attribuiva un «pensiero prelogico». Edward B. Tylor, il primo antropologo a cui l’Università di Oxford assegnò una specifica cattedra (nel 1896), concepiva la storia dell’umanità come «uno sviluppo della mente umana verso uno stadio di complessità e razionalità crescenti». Sosteneva che «le credenze, i miti, e tutto ciò che allontanava il pensiero dalla razionalità oggettiva costituiscono retaggi del passato, utili all’antropologo impegnato a studiare le configurazioni arcaiche della cognizione, ma condannati a scomparire dalle società moderne». Sbagliava.
Nel 1986 Françoise Bouchayer ha fatto un’interessante indagine sul campo a Loch Ness e ha scoperto che a credere all’esistenza del mostro erano soprattutto individui diplomati. D’altra parte non si può non notare come basso status sociale e scarsa istruzione non fossero affatto caratteristiche della maggior parte dei militanti dell’Ira, delle Brigate rosse, della banda Baader Meinhof, dell’Armata rossa giapponese. E Mohammed Atta, il principale responsabile dell’attentato dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers, era, come è noto, laureato, per giunta con una tesi sulla riqualificazione architettonica dei quartieri antichi. Parimenti istruito era stato Sergej Necaev il rivoluzionario russo che — come ha ben ricostruito Michael Confino nel libro Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l’affare Necaev (Adelphi) — trascinò nel fanatismo parte considerevole di due generazioni di giovani russi alla fine dell’Ottocento.
Alexis de Tocqueville — nel 1856, in L’antico regime e la Rivoluzione (Rizzoli) — notò che la presa della Bastiglia era stata preceduta da un ventennio di benessere. Paradossalmente «a mano a mano che si sviluppa in Francia la prosperità, gli spiriti sembrano più inquieti, il malcontento pubblico si inasprisce; l’odio contro tutte le antiche istituzioni aumenta, la nazione si avvia palesemente verso una rivoluzione». Spiega poi Tocqueville: «Vent’anni prima non si sperava nulla dall’avvenire, adesso non si teme nulla; l’immaginazione, impadronendosi in anticipo di quella felicità prossima e inaudita, rende indifferente ai beni che si hanno e spinge a precipizio verso le cose nuove».
Dopo un incoraggiante periodo di prosperità, nota adesso Bronner, alcune categorie di individui cominciarono a nutrire anticipazioni troppo ottimistiche, come se la loro visione del futuro fosse una tangente rispetto alla china in discesa del presente. Quando le previsioni si rivelarono sbagliate, questi individui si sentirono defraudati da ciò che ritenevano spettasse loro di diritto. Perché, nei loro sogni ad occhi aperti, si erano già concessi quei beni ai quali ora avrebbero dovuto rinunciare. Il malcontento si diffuse in particolare in gruppi generalmente poco «rivoluzionari» (come redditieri, commercianti, industriali), penalizzati dalla cattiva gestione dello Stato. Il loro intenso desiderio di arricchirsi, alimentato dalla recente prosperità, era destinato ad essere frustrato dai debiti non pagati dello Stato (e da quelli che loro stessi avevano contratto). Il desiderio di riforme, in particolare delle istituzioni finanziarie, nasceva da tale irritazione generalizzata. A questo punto Tocqueville si domanda: «Come sarebbe stato possibile sfuggire a una catastrofe?». In nessun modo, quando si ha «da una parte una nazione all’interno della quale il desiderio di far fortuna cresce ogni giorno» e «dall’altra un governo che eccita continuamente questa passione nuova e continuamente la turba, l’attizza e la delude, affrettando così la propria rovina».
Lo spazio della frustrazione collettiva, osserva Bronner, è definito dallo scarto tra ciò che riteniamo possibile e desiderabile, da un lato, e l’effettiva realizzazione di tali prospettive, dall’altro. Se questo spazio è eccessivo, la situazione rischia di farsi esplosiva. Nel 1962 James C. Davies, studiando la rivoluzione russa del 1917, giunse alla conclusione che «un movimento di protesta sociale ha più probabilità di verificarsi se è preceduto da una crisi economica, a sua volta conseguente a un lungo periodo di crescita e di prosperità». In seguito a lunghi periodi di crescita economica, «le aspirazioni della popolazione si orientano verso l’alto, le azioni, gli investimenti e i desideri sono ispirati dalle modalità di anticipazione dell’avvenire; se una crisi improvvisa manda all’aria tutti i progetti, gli individui, costretti a ridimensionare o ad annullare le loro elevate aspirazioni, sperimentano un’intensa frustrazione». E, dice Davies, l’aggregazione delle frustrazioni può scatenare una rivoluzione. Ma, specifica Bronner, tale struttura della frustrazione collettiva è solo una delle possibili forme che può assumere la distinzione tra livelli d’aspirazione (cioè le credenze collegate al futuro) e il livello di soddisfazione reale (risultato del confronto della credenza con la realtà). Andando più in là di Davies, Ted Gurr ha proposto di aggiungere altre due strutture: «Nella prima il livello di aspirazione resta costante quando cala quello di soddisfazione, nella seconda il livello di soddisfazione reale resta stabile anche quando aumenta quello di aspirazione».
Già alla fine dell’Ottocento, in Sociologia del suicidio (Newton Compton), Émile Durkheim aveva messo in risalto come in ogni Paese «il tasso di suicidi non aumenta solo, come prevedibile, nei periodi di crisi economica, ma anche nelle fasi di prosperità (è accaduto ad esempio in Italia e in Prussia negli ultimi anni del XIX secolo)». Il fattore di generazione dei suicidi, spiegava Durkheim, non è tanto la miseria quanto il brusco cambiamento sociale; «ogni rottura di equilibrio, anche se apportatrice di un maggiore benessere e di un aumento della vitalità generale, spinge alla morte volontaria». Le crisi, a prescindere dalla loro natura negativa o positiva, impediscono provvisoriamente alla società di esercitare la sua azione di regolazione dei desideri. «Un qualunque essere vivente», sono sempre parole di Durkheim, «non può essere felice e non può nemmeno vivere se i suoi bisogni non hanno un rapporto sufficiente con i mezzi di cui dispone». Nei periodi di brusca prosperità, le aspirazioni non regolate degli individui tendono a collocarsi ad un livello inaccessibile, alimentando la frustrazione.
Già, la frustrazione. Gli jihadisti di tutto il mondo — ha scritto Elie Barnavi in Religioni assassine (Bompiani) — al di là delle differenze che intercorrono tra loro, ritengono tutti di essere stati umiliati dall’Occidente e sono ossessionati dall’idea di prendersi una rivincita. Le origini dei soprusi percepiti sono molteplici: la colonizzazione, la schiavitù, la dominazione economica e culturale e tutta una serie di fatti d’attualità ritenuti collegati ad una «famiglia immaginaria» (nel loro caso quella dei musulmani oppressi). E, dal momento che non è difficile individuare nel mondo dei musulmani oppressi dagli occidentali, l’estremista ritiene legittimo che un qualsiasi musulmano possa, a sua volta, colpire gli occidentali.
Eppure le costruzioni e le rivendicazioni dei terroristi appaiono assurde anche a uno sguardo superficiale. Certo, spiega Bronner, «perché le credenze estreme ci vengono di solito presentate nella loro forma costituita, mentre per comprenderle avremmo bisogno di osservarne il processo di costituzione; l’adesione a queste credenze è caratterizzata da una meccanica progressiva, quasi invisibile per l’osservatore». I gruppi estremisti sanno bene che se la loro dottrina fosse conosciuta subito e in forma integrale, essa scoraggerebbe molti potenziali affiliati; perciò si preoccupano di introdurre in maniera progressiva un sistema di credenze che, se si giudicassero tutte assieme, il senso comune liquiderebbe come assurde. Devono dunque spingere l’adepto ad accogliere per gradi tale sistema di credenze. «Talvolta la verità stessa della dottrina è tenuta (temporaneamente) nascosta; questa astuta manipolazione consente di eludere le resistenze suscitate in qualunque persona da proposizioni stravaganti».
Perciò una tappa fondamentale è quella della conversione. La conversione «è il risultato di una sottile combinazione di esperienze personali e prove esterne che gradualmente costruiscono una credenza spettacolare, del tutto scollegata dal senso comune». A ciascuna tappa del processo, «l’iniziato si confronta con argomenti nuovi che, per essere accolti, richiedono un impegno lievemente superiore rispetto al livello precedente; una volta innescato questo meccanismo cognitivo incrementale, diventa molto difficile decostruire le credenze del discepolo ricorrendo ad argomentazioni contraddittorie». Poi, scrive Bronner, una delle modalità di ingresso nel fanatismo, ben documentata dagli esperti, è collegata all’impressione di penetrare nel tempio della purezza, dove si espiano tutti i peccati commessi e si riscattano le umiliazioni precedenti a questa rinascita.
Di qui un percorso di formazione che ben si ravvisa nell’estremismo musulmano. Si propone una particolare rilettura della storia del mondo che conduce l’iniziato alla conclusione che l’azione violenta non solo è necessaria, ma anche eticamente giusta. Viene descritta un’età dell’oro, ai tempi del Profeta e dei primi califfi, un’epoca di equilibrio e di serenità, durante la quale gli esseri umani vivevano in armonia con Dio e imponevano il rispetto della sua volontà. L’empietà degli infedeli ha infranto questo equilibrio perfetto, inaugurando un’epoca di decadenza. Ha notato Hannah Arendt nella sua opera Le origini del totalitarismo (Einaudi) che «i movimenti totalitari evocano un mondo menzognero di coerenza che meglio della realtà risponde ai bisogni della mente umana e in cui, mercé l’immaginazione, le masse sradicate possono sentirsi a proprio agio ed evitare gli incessanti colpi che la vita e le esperienze reali infliggono agli uomini e alle loro aspettative». Si è avuta poi, secondo questa ricostruzione storica, l’era dell’umiliazione e della frustrazione. Walter Runciman, in Ineguaglianza e coscienza sociale (Einaudi), ha dimostrato che «il sentimento di frustrazione è più acuto quando l’individuo attribuisce il suo fallimento percepito (cioè la differenza tra le sue aspirazioni e la loro effettiva realizzazione) non a ostacoli posti a lui come persona, ma a una discriminazione della comunità di appartenenza». Sarebbe «per favorire la rovina dei musulmani» che il mondo occidentale avrebbe fatto occupare parte delle sue terre al «malefico popolo di Israele». Non si sfugge all’umiliazione.
Uno degli ideologi dei Fratelli musulmani, Sayyid Qutb, già all’inizio degli anni Cinquanta, reduce da un viaggio negli Stati Uniti, ne parlò come di un Paese da distruggere. Capì che difficilmente ai giovani lì espatriati sarebbe stato riconosciuto lo stesso status sociale che avevano nel Paese d’origine, benché il loro livello di istruzione fosse spesso superiore alla media nazionale del Paese di adozione. La sensazione di declassamento e di frustrazione che ne derivava era la conseguenza dello scarto tra ciò a cui pensavano di aver diritto, le speranze nutrite prima della partenza, e ciò che avevano ottenuto nella realtà. Alexis de Tocqueville per primo ha notato come il pensiero estremo possa essere considerato un’espressione particolarmente rappresentativa della modernità. «Le società democratiche causano, per loro natura, un tasso di frustrazione superiore a quello prodotto da tutti gli altri sistemi sociali». Questo proprio «in ragione dei principi su cui si fondano: ricompensa del merito e rivendicazione dell’uguaglianza».
Reduce dal celebre viaggio in America, Tocqueville scrisse di quello «strano malessere psicologico dei cittadini» che pure per le condizioni materiali di vita — soprattutto se messe a confronto con quelle degli europei — avrebbero avuto poco di cui lamentarsi. «Quando sono abolite tutte le prerogative di nascita e di fortuna, quando tutte le professioni sono aperte a tutti e uno può arrivare con le sue sole forze all’apice di esse», scriveva, «davanti all’ambizione degli uomini sembra aprirsi un campo immenso e facile, ed essi immaginano volentieri di essere chiamati a grandi destini». Ma è una concezione «fallace», che «l’esperienza corregge ogni giorno». Quando «la diseguaglianza è la legge comune di una società, finisce che le diverse, anche grandi, disuguaglianze non colpiscono l’occhio; quando tutto è all’incirca allo stesso livello, l’occhio è ferito anche dalle più piccole». Ecco le cause cui va attribuita la singolare «malinconia» che «mostrano spesso gli abitanti dei Paesi democratici» dove pure è il regno dell’abbondanza, e «il disgusto per la vita che a volte li colpisce nel pieno di un’esistenza agiata e tranquilla».
La vita dei cittadini convinti di meritare molto più di ciò che hanno e che coltivano ambizioni sempre più grandiose, prosegue Bronner, produce una sentimento che «rischia di convertirsi in un disprezzo del mondo materiale, che alimenta la credenza consolatoria nell’esistenza di un mondo superiore, lontano dalle illusioni terrene». Gli estremisti, nota ancora Bronner, «presentano spesso un livello di istruzione superiore alla media», che inevitabilmente si associa alle loro aspirazioni elevate. Scrive poi l’autore che in tutti i casi che ha studiato «la frustrazione e il desiderio di affermazione costituiscono un mix esplosivo (…). Una delle grandi passioni inedite dei nostri tempi democratici è l’appetito per la notorietà, talvolta privilegiata persino rispetto alla riuscita economica».
Lo studioso parla poi di quello che definisce «l’oligopolio cognitivo che imprigiona l’individuo nel radicalismo». Che significa? A volte il processo di radicalizzazione può risultare invisibile, perché l’estremista e il gruppo al quale appartiene sanno bene che alcune attività, soprattutto quelle terroristiche, non si conciliano con la trasparenza. Altre volte «l’individuo ostenta visibilmente i segni della radicalizzazione perché fiero della sua nuova identità e per tentare di convincere il suo entourage a seguire la stessa strada». Qui tutti, a cominciare dai familiari, sono portati a commettere l’errore di provare ad allontanare l’estremista dalla sua credenza, provando a fargli capire l’insensatezza della sua scelta e denigrando coloro che ne hanno compiuto una simile. E invece si dovrebbe percorrere un’altra via.
Le nostre idee preconcette spiegano, almeno in parte, l’invisibilità sociale dei processi che conducono ad aderire a una qualche forma di estremismo. Ma a un certo punto inevitabilmente siamo portati a porci una domanda: come è possibile aderire in maniera incondizionata a un sistema di idee che incoraggia a commettere atti criminali, ignorando valori umani e interessi materiali? Possiamo ipotizzare che il senso dei valori o degli interessi personali scompaia dalla mente dell’estremista? Qui Bronner ricorre a quello che definisce il «paradosso della incommensurabilità mentale» riferendosi a «una realtà un po’ oscura della nostra vita psichica, la cui portata va oltre il pensiero estremo». Il paradosso è ciò che ci permette di comprendere come mai sia quasi impossibile far cambiare idea a un estremista, salvo che, quando lui decide che è venuto il momento di cambiarla quell’idea, le sue credenze, che apparivano fino a un minuto prima inattaccabili, si sgretolano in un batter d’occhio. Segno questo che non è un principio logico che le teneva insieme, bensì una decisione che con il merito di esse aveva poco a che vedere.
Quasi sempre il tema centrale (anche se occultato) del pensiero radicale è quello della morte. In alcuni casi ci si limita ad attendere il proprio destino. Come gli avventisti millenaristi convinti — sulla base dei calcoli del loro guru, William Miller, un colonnello del New England che cercava di interpretare le profezie bibliche — che la fine del mondo sarebbe giunta tra il 1843 e il 1844. La data venne rinviata per ben quattro volte, ma dopo l’ennesima proroga la sera del 22 ottobre i millenaristi finirono per rinunciare a credere nella fine dell’umanità: «Le nostre speranze e le nostre aspettative sono andate in fumo», scrisse uno degli adepti, «e ci ha preso una tristezza che non avevo mai conosciuto prima; sembrava che la perdita di tutti gli amici terreni non potesse avere paragone… piangevamo in continuazione, fino all’alba». Altre volte alcuni militanti della setta presero essi stessi l’iniziativa di accelerare l’Armageddon proprio per non essere risucchiati dalla sindrome di Miller testé descritta: è il caso dei giapponesi Aum, che nel 1995 cercarono di provocare una catastrofe chimica nella città di Tokyo. Oppure come fecero quella sessantina di membri dell’Ordine del Tempio solare che, tra il 1994 e il 1995 negli Stati Uniti, decisero (come avrebbero fatto in tempi successivi altri loro simili) di togliersi la vita.
Tra gli estremisti «si incontrano ovviamente squilibrati ed è senza dubbio ipotizzabile che molti individui entrino a far parte di gruppi radicali perché psicologicamente fragili o facilmente manipolabili». Ma le spiegazioni di questo genere contrastano con quanto chiaramente osservato da tutti i ricercatori che hanno tentato di tratteggiare la figura dell’estremista tipo. Gli adepti studiati a metà anni Ottanta da David Stupple, ad esempio, risultavano «socialmente ben integrati, moralmente e cognitivamente equilibrati». Maurice Duval si è interessato a una setta chiamata Aumismo (era stata fondata nel 1969 da Gilbert Bourdin a Castellane, nelle Alpi dell’Alta Provenza) e ha trovato che i partecipanti leggevano regolarmente i giornali, iscrivevano i figli a scuole pubbliche e private, partecipavano a dibattiti e avevano un livello culturale superiore alla media nazionale. Un’ulteriore conferma dell’assunto di questo libro di Gérald Bronner: il mondo del pensiero estremo e delle pratiche estreme è in tutto e per tutto (o quasi) l’opposto di quel che appare. Ed è anche per questo che ogni volta che sembra sia stato disintegrato per sempre, si ripresenta intatto, anzi rafforzato e comunque puntuale ad ogni tornante della storia.
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