Dario Di Vico, Corriere della Sera 26/6/2012, 26 giugno 2012
GLI ESTRANEI DELLA PARTITA IVA E I COSTI (ALTI) CHIESTI DALLO STATO
Tutti vorrebbero rappresentarle ma i governi continuano a bastonarle. È il destino delle (vere) partite Iva made in Italy che rischiano di uscire con le ossa rotte dalla riforma Fornero. Sei punti in più di contribuzione previdenziale (dal 27 al 33%) produrranno reazioni e strategie di adattamento che non è facile prevedere ma che sicuramente allargheranno il fossato che già divide istituzioni e lavoro autonomo. A niente è servito l’incontro milanese tra Fornero e i rappresentanti delle associazioni del terziario avanzato, così come non ha prodotto conseguenze la prima audizione parlamentare dedicata alle partite Iva. La Confindustria si lamenta, la Cgil pure e i loro decibel superano di gran lunga l’allarme che pure arriva dai lavoratori autonomi. Eppure le prime uscite del ministro Fornero erano state commentate con favore perché promettevano di passare dalla concertazione novecentesca a un universalismo più moderno. Ma i fatti non hanno tenuto dietro alle intenzioni e alla fine quello che attende le partite Iva è un ulteriore salasso sulle loro entrate.
Eppure a guardare i numeri che escono fuori dalla recentissima indagine condotta dal sociologo Costanzo Ranci del Politecnico di Milano il peso quantitativo delle partite Iva è notevole (5,7 milioni di persone) e la loro influenza si estende anche sui 3 milioni di dipendenti di microimprese (fino a 9 addetti) che pur essendo giuridicamente dipendenti hanno una cultura del rischio e un rapporto con la gerarchia tipico del lavoro autonomo. Insomma sono più vicini all’impresa che al sindacato e hanno livelli retributivi più bassi. Questo mondo è in grande e veloce cambiamento. Se una volta le figure prevalenti erano commercianti, artigiani e operatori dei servizi ora la qualificazione sale. Fino agli anni 90 i lavoratori autonomi italiani erano per il 50% a bassa qualificazione, nell’arco di 20 anni questa percentuale è scesa al 33 mentre i professionisti (laureati) sono diventati il 50%. Le partite Iva, secondo la fotografia di Ranci e dei suoi collaboratori, sono ringiovanite, si sono femminilizzate e culturalmente individualizzate. A monte di questi mutamenti ci sono le ristrutturazioni continue delle imprese italiane alle prese con l’euro prima e la Grande Crisi dopo e ciò ha portato a un’estensione dei processi di outsourcing e a una creazione di lavoro professionale. Le figure prevalenti sono quelle degli informatici, dei grafici, dei comunicatori, dei consulenti alti e medi, degli intermediari finanziari e immobiliari. Le imprese si snelliscono, si organizzano a rete e le partite Iva diventano parte di una filiera. Ranci segnala la specializzazione graduale del sistema commerciale, l’estensione del franchising, le attività di servizio legate alla mobilità delle merci e all’e-commerce e l’esplosione del numero di architetti e avvocati, che si rivolgono agli ordini per le pensione ma non credono a quel tipo di organizzazione e rappresentanza.
La ricerca prende in esame anche i redditi dei lavoratori autonomi e sostiene come negli ultimi 15 anni il reddito mediano sia aumentato notevolmente (+39%) ma il ventaglio degli introiti si è molto allargato. Insomma non ha senso parlare del lavoro autonomo come un unicum indistinto, anzi. L’aumento delle disuguaglianze è più veloce che nel mondo del lavoro dipendente, dentro le singole categorie ci sono commercianti ricchi e commercianti poveri, architetti strapagati e architetti che a fatica sbarcano il lunario. Ranci parla di «polarizzazione», di forbice che si è allargata con la nascita di un comparto delle partite Iva deboli che svolgono mansioni poco pregiate soprattutto nei servizi e che sono dei para-dipendenti. L’indagine pubblicata dal Mulino e già disponibile in libreria («Partite Iva, il lavoro autonomo nella crisi italiana») contiene anche una stima delle cosiddette «false partite Iva» che sarebbero 280 mila (su 5,7 milioni), per lo più giovani e donne di qualificazione medio-bassa e che non hanno alcuna possibilità di negoziare la loro prestazione negli ambiti in cui operano. «Fino agli anni 90 il lavoro autonomo è stato un enorme ammortizzatore sociale che ha evitato i danni peggiori della deindustrializzazione — spiega Ranci — ma oggi questa medietà è in difficoltà. Il ceto medio si frantuma in tante monadi senza rete che vivono in un mercato più turbolento. E queste figure non si chiedono come arrivare alle pensione ma più brutalmente cosa fare tra sei mesi».
Infine le rivendicazioni. Le partite Iva 2012 fanno un’unica richiesta, quella di sostenere la loro posizione di mercato. Non vogliono niente dallo Stato, sono già estranei. «Alla debole inclusione nel welfare proposta dal governo preferiscono la via del fai-da-te, dell’autorganizzazione, della maggiore distanza possibile dalla politica, anche al rischio di una deriva populista». E dopo l’approvazione della riforma Fornero c’è il rischio che (estranei) lo diventino ancora di più.
Dario Di Vico