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 2012  giugno 25 Lunedì calendario

LA PICCOLA MAHI MORTA IN DIRETTA COME ALFREDINO TRENT’ANNI FA


Trent’anni dopo è successo di nuovo, in India questa volta, ma le circostanze sono così simili a quanto accadde in Italia nel giugno del 1981 da restare impressionati. Una bambina, Mahi, nel giorno del suo quinto compleanno, giocando è caduta in un pozzo profondo venticinque metri nella zona di Manesar, a sud di New Delhy: vani sono stati i tentativi di salvarla scavando un cunicolo parallelo e soltanto ieri, dopo ottantasei ore, la piccola è stata estratta dal cuore della terra, già morta da un pezzo, però. Uno o al massimo due giorni, dicono i medici, deve essere durata la sua agonia.
Come era successo allora per il povero Alfredino Rampi, sei anni, caduto, mentre tornava a casa, in un pozzo artesiano nei pressi di Vermicino, poco distante da Frascati, anche nel caso della bambina Mahi, l’India ha potuto seguire la tragedia in diretta televisiva, con giornalisti, fotografi e cameraman assiepati assieme alle squadre di intervento intorno al maledetto buco nero. Anche qui non sono mancate disfunzioni e trascuratezze: basti pensare che la polizia, chiamata dal padre a cinque minuti appena dall’incidente, si è fatta attendere una buona ora e mezza e che soltanto l’indomani mattina, dopo lunghe incertezze su come e cosa fare, si è messa in moto la macchina dei soccorsi. Di nuovo e di diverso rispetto a quell’altra tragica storia c’è stata la partecipazione attiva — via Facebook e Twitter — di migliaia o, forse, di milioni di indiani.
Il commento più appropriato è stato probabilmente quello di una star di Bollywood e divo della pubblicità, Amitahb Bachchan. «Che Paese mai è questo — ha detto — se possiamo lanciare missili intercontinentali ma non ce la facciamo a salvare una bimba caduta in un pozzo?». In altri termini sono le stesse riflessioni che, trent’anni fa, intorno a quel pozzo nostrano, sono passate per la testa di molti di noi. E chi ha in seguito ripensato a quella crudelissima vicenda, si è detto probabilmente che se solo la tecnologia fosse stata, allora, più avanzata, il bambino Rampi si sarebbe magari potuto salvare. Di anni ne sono passati molti e le tecnologie hanno fatto il loro cammino, eppure è successo di nuovo, esattamente allo stesso modo. E allo stesso modo, là come qua, qualcuno aveva scavato un pozzo lasciandolo aperto e incustodito.
Tranne ragazzi e giovani, ce le ricordiamo tutti quelle notti passate a vedere «Vermicino» nell’ininterrotta diretta tv che mostrava la folla, a volte anche di diecimila persone, accorsa sul posto per guardare, per vedere, ma anche per offrire aiuto, consiglio, esperienza. Con la voce sempre più flebile del povero piccolo che giungeva fino su dai sessanta metri di profondità dove era scivolato a causa delle vibrazioni del terreno provocate dalla trivella che scavava il cunicolo parallelo. Con la visita del presidente della Repubblica, Pertini, accorso a sua volta per testimoniare solidarietà.
Mai per nessun altro avvenimento, non per una partita di calcio e nemmeno per una Olimpiade nell’emisfero opposto, gli italiani avevano vegliato per così tanto tempo alla televisione. Mai nessun altro incidente, sciagura, disastro — e sì che ne abbiamo avuto tanti nel corso dei decenni — ha coinvolto così nel profondo l’intero paese. Il caso del bambino Rampi, morto nel pozzo di Vermicino ha, in un certo senso, rappresentato uno spartiacque: dopo di allora si può dire che, un poco alla volta, sia diventato prassi abituale irrompere — via tv — nella privacy di una tragedia, come anche di una commedia.
Trasmissioni come «Chi l’ha visto», che mostra famiglie disperate, strette sul divano del salotto mentre, piangendo, supplicano il loro caro desaparecido di tornare a casa, sono un po’ figlie di quelle dirette da Vermicino. Come lo è un po’ tutta la tv del dolore che dà modo di partecipare, di guardare, di spiare. E, per qualche verso, pure «Il grande fratello» e i suoi tanti derivati reality show potrebbero discendere da quella prima, terribile, interminabile diretta della disperazione.