Sandro Modeo, la Lettura (Corriere della Sera) 24/6/2012, 24 giugno 2012
I SEGRETI DEI TAMBURI CHE PARLANO
Siamo nel 1730, tra i fiumi e le foreste di mangrovie del Gambia: un esploratore al servizio di mercanti di schiavi inglesi, Francis Moore, è impressionato da certi tamburi di legno intagliato, la cui percussione può cadenzare la danza o contattare i villaggi alleati in caso di imminente aggressione nemica. Il potere incantatorio di quel «flusso monodimensionale di suoni puri» (che trasmette messaggi, di villaggio in villaggio, fino a 100 miglia di distanza in un’ora) suggestionerà tanti viaggiatori nell’Africa subsahariana, ma verrà decifrato solo due secoli dopo da un missionario, John F. Carrington, capace di ricondurlo alle lingue locali, in cui variazioni tonali sulle sillabe producono variazioni semantiche: lisaka con tre sillabe in tono basso è una «pozzanghera», con le ultime due in tono alto un «veleno», con la sola ultima una «promessa». Da questo ventaglio tonale, i tamburi elaborano formule figurali di matrice arcaico-epica: non dicono «torna a casa» o «non aver paura», ma «fa’ che i tuoi piedi tornino sulla strada che hanno percorso» o «riporta il tuo cuore giù dalla tua bocca». Formule tutt’altro che esornative, che sarebbero oggi — nel gergo informatico — «bit aggiuntivi per la disambiguazione», ridondanza per eliminare ambiguità.
La lunga, complessa sequenza dei «tamburi parlanti» connota già dall’intro il nuovo libro del fisico-divulgatore James Gleick (L’informazione, Feltrinelli) come un intarsio trascinante di narrazioni e snodi concettuali, con una folla di protagonisti, comprimari e comparse — matematici e biologi, fisici e filosofi — accomunati da un’unica passione-ossessione: quella — come ha scritto Claude Shannon, matematico-ingegnere americano padre della moderna «teoria dell’informazione» — di «riprodurre in un punto, esattamente o in modo approssimato, un messaggio selezionato in un altro punto». È una definizione da acquisire come stella polare per tutto il libro, per non finire travolti da una fantasmagoria estesa dai segni cuneiformi a Wikipedia, dagli stessi «tamburi parlanti» ai qubit quantistici.
Il nucleo radiale del percorso di Gleick, fatalmente, si concentra proprio nell’America di Shannon tra gli anni 50 e 60, specie tra i laboratori Bell e quelli della Western Electric Company. Il luogo e il tempo in cui operano, tra gli altri — spesso in sinergia — Ralph Hartley, le cui equazioni stabiliscono come «la quantità di informazione trasmissibile» sia «proporzionale alla banda di frequenza trasmessa e al tempo di trasmissione»; il fondatore della cibernetica Norbert Wiener, convinto che l’informazione consista nella costruzione di «isole arbitrarie di ordine e sistematicità» nell’entropia (il disordine) che ci circonda; e soprattutto Alan Turing, il matematico che sulla spoglia struttura di una macchina da scrivere (un nastro e dei simboli) concepisce il primo vero computer, unificando logica ed elettronica, impostando il sistema binario (0-1) e introducendo termini (scansione, configurazioni) a noi familiari.
Ma forse il fascino più insinuante emana dai pionieri e dagli «antefatti» di quella golden age. Da figure dell’Inghilterra vittoriana come Charles Babbage, il genio multiforme le cui mastodontiche macchine a ingranaggi sono già avviate su una strada archeo-informatica (messaggi, codifica, elaborazione) o come la sua «musa» Ada Lovelace (figlia di Byron), folgorata dal telaio Jacquard, in cui le figure da tracciare sui tessuti sono codificate da fori in schede di cartone. E da antefatti come la lunga epopea dei telegrafi, da quelli ottici dei fratelli Chappe (che tappezzano la Francia napoleonica di altissime pertiche con braccia semovibili, mandando segnali cifrati da Tolone a Parigi in 12 minuti — 700 chilometri coperti da 120 «stazioni») a quello elettrico di Morse e Vail, col codice trasmesso per rilascio e interruzione di corrente. Colpisce, in questa successione, la staffetta di prefigurazioni: il telegrafo era già tutto in una visione di Babbage (le città con pilastri e campanili collegati da cavi, sui quali far correre contenitori di stagno coi messaggi); mentre il piccolo Shannon trova l’innesco della propria passione alzando gli occhi alla ragnatela di fili telegrafici distesi sulle campagne di Gaylord, nel Michigan.
Intento più a giustapporre tesi e controtesi sulla natura dell’informazione che a formularne una propria, Gleick lascia però distendere nelle profondità del libro due lunghe ombre di ambiguità, che forse è meglio fugare.
La prima riguarda l’analogia tra biologia e informatica. Pur spiegando bene la genesi biologico-evolutiva dell’informazione (la comparsa, insieme casuale e legata a vincoli biochimici, di molecole abbastanza complesse da replicare se stesse, forse in cristalli di arenaria), Gleick non sembra cogliere in pieno le differenze tra «replicatori di informazione» nei sistemi viventi (Rna e Dna) e in quelli artificiali (copiare un file), tra la memoria-apprendimento nel cervello umano e nel computer; in ultimo, tra un modello «selezionistico» e uno «istruzionistico». La biologia è plastica e attiva: il brulichìo molecolare di un vivente anticipa gli stimoli ambientali con un ventaglio di proposte (di forme e strutture) selezionate a posteriori in rapporto alla loro utilità adattativa. L’informatica è rigida e passiva: il computer è un deposito di informazioni e istruzioni che eseguono operazioni in un sistema «chiuso». I paragoni agli albori dell’«età elettrica» tra rete telegrafica e «sistema nervoso della Terra» o quello di Schrodinger tra programma genetico e codice Morse, oggi non sono più percorribili; e se la premessa teorico-metodologica di Shannon (trattare l’informazione a prescindere dal «significato») è ineccepibile — in fondo tutto si riduce a trasmettere e ricevere, codificare e decodificare — un gene e un pc non lo fanno allo stesso modo. L’informazione non è «indifferente» al substrato che la veicola.
La seconda ombra è un’emanazione della prima: se — come credeva Babbage — è possibile «astrarre l’informazione dal suo substrato fisico», può venire naturale assimilarla agli oggetti matematici e attribuirle l’immaterialità spettrale delle entità platoniche. In effetti, è la posizione di fisici autorevoli come Archibald Wheeler (scopritore dei buchi neri), che negli ultimi anni di vita ripeteva il mantra «It from Bit», l’informazione precede tutto, anche la materia e l’energia. Anche qui, Gleick getta le premesse per sciogliere l’equivoco, ricordando che l’immane quantità di informazione della Rete e le infinite praterie della «Nuvola» sono solo la conseguenza della comprimibilità algoritmica, e che tutto è monitorato nella «pesantezza» delle server farm, grandi edifici senza finestre, in cui scorrono chilometri di generatori diesel, torri di raffreddamento, ventilatori di un metro di diametro. Eppure, la tentazione strisciante del platonismo non lo abbandona.
Che l’informazione sia separabile dall’energia e dalla materia è un (auto) inganno a cui siamo predisposti, uno dei più tenaci. In fondo, abbiamo bisogno di credere ai fantasmi.