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 2012  giugno 24 Domenica calendario

IL PRIMATO DIGITALE DI PIETRO


La società che controlla i nomi di dominio Internet ha annunciato che, oltre ai classici .com o .org, autorizzerà siti con estensioni corrispondenti a Chiese e religioni. Si apre l’era di «.catholic», «.islam» e «.buddhist». Può sembrare un fatto di superficie, un aggiustamento di forma. L’annuncio è invece il simbolo di una trasformazione profonda. Da sempre i mezzi di comunicazione interagiscono con la religione. Il processo è circolare: nuove fedi ispirano nuovi modi di comunicare, che a loro volta generano una nuova religione. È avvenuto con l’invenzione della stampa e il protestantesimo. Sta avvenendo ora, con la rete telematica. Lo spazio virtuale è ormai un luogo decisivo per i credenti. È lì che si guadagnano visibilità e riconoscimento; è lì che si coagula una nuova religiosità, come ha suggerito Carlo Formenti sul «Corriere» del 12 giugno.
Per secoli le Chiese hanno chiesto allo Stato di garantire il proprio monopolio e le proprie istituzioni, e hanno difeso contro lo Stato la propria libertà, mentre le sette tentavano di sfuggire al controllo, oppure, più recentemente, di ripararsi all’ombra dello Stato medesimo. L’organizzazione della fede è stata questione di diritto pubblico: da decidersi nei parlamenti, nei ministeri, in tribunale. Con la crisi dello Stato e dell’idea di territorio ad esso associata, si sono affermati nuovi canali di riconoscimento e di minaccia. Internet è tra questi il più potente.
Nella rete, profeti e dissidenti sfidano le istituzioni religiose; nella rete, le tradizioni si rinserrano. Per resistere nel mondo globale, le istituzioni religiose devono stare efficacemente nella rete. La strutturazione del web e l’organizzazione del mercato religioso globale s’intrecciano. Non più soltanto diritto pubblico, il diritto della religione è sempre più diritto del web. Spetta ormai a Icann, la Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, arbitrare la competizione tra credenti, confessioni e religioni. Questo soggetto ibrido, ex Ong di dubbia indipendenza, detiene un potere cruciale per le fedi. Con esso si rinnova la battaglia bifronte dei credenti per il riconoscimento e per la libertà. Icann può infatti difendere la libertà degli internauti, ivi compresa quella dei fedeli ribelli, e mettere in pericolo le ortodossie religiose, o può al contrario soccorrere i monopoli restringendo gli spazi.
Gli ideali intersecano il business. La miniera dei vecchi domini si sta esaurendo: aprendone di nuovi, Icann cerca filoni vergini da sfruttare. È una strategia spregiudicata, sostiene l’esperto di diritto dei media Andrea Monti. Quanti soldi freschi entreranno da Chiese e società commerciali timorose di perdere il controllo? Sembra che Coca-Cola non stia al gioco, ma la maggior parte, Fiat e Canon ad esempio, ma anche le città di Parigi e New York, ci sta. Su Arabnews.com l’apertura di siti con estensioni .islam è stata salutata come una grande opportunità. Tanto più che Icann ha annunciato l’apertura di domini in arabo, oltre che in hindi, ebraico e cinese. I credenti si organizzino e occupino ogni spazio possibile per impedire che .islam cada in mani sbagliate.
Se l’Islam, privo di una gerarchia unificante, reagisce dal basso, la Chiesa cattolica ha adottato una strategia di vertice. Il 13 giugno scorso il Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali ha messo sul tavolo i quasi 150 mila euro necessari per la domanda di registrazione dell’estensione .catholic, anche in caratteri cirillici, arabi e cinesi. Già dieci anni fa, il Pontificio consiglio si espresse sulle «opportunità e sfide» di Internet e stigmatizzò «la proliferazione, che a volte crea confusione, di siti web non ufficiali che si definiscono "cattolici"». Dieci anni dopo, la disponibilità di un dominio .catholic ha ingigantito il timore dell’effetto disgregante del Web sull’unità cattolica. Per questo la Santa Sede si è prontamente candidata al monopolio digitale: il controllo del dominio, ha spiegato il segretario del Pontificio consiglio, l’irlandese Paul Tighe, consentirà di «autenticare la presenza cattolica online», di rafforzare la coesione e l’organizzazione della Chiesa, e di far sì che «la struttura ufficiale della Chiesa possa essere rispecchiata nello spazio digitale». L’asse tra Icann e autorità vaticane, sperano a Roma, costituirà un efficace meccanismo di accreditamento canonico dei soggetti cattolici abilitati a presentarsi come tali in rete.
Le incognite legate all’apertura di domini «religiosi» restano tante. Le religioni e le Chiese prive di una rigida struttura centrale, dai buddhisti agli ebrei, dai protestanti ai sikh, sono naturalmente più esposte al rischio, ma anche più a loro agio nella fluidità della rete. Viceversa l’ambizione vaticana di usare l’estensione .catholic per alzare la barriera contro un cattolicesimo selvaggio rischia di rivelarsi illusoria. Intanto perché la disciplina giuridica dei domini di primo livello (i generic top-level domains), come appunto .catholic, e le stesse competenze di Icann, sono tutt’altro che certe. In secondo luogo, per le tensioni che deriveranno dalle inevitabili appropriazioni abusive, o semplicemente dai diritti dei tanti cattolici, ad esempio anglicani, che non riconoscono il monopolio di Roma. Infine, le complicazioni connesse alla gestione del servizio, delle infrastrutture e dei relativi capitali rischiano di rivelarsi una trappola per un cattolicesimo già invischiato negli scandali finanziari. La struttura della comunicazione digitale e l’organizzazione delle religioni si inseguono, in una centrifuga di impulsi spesso confliggenti: tendono alla libertà i credenti come vi tende la rete; hanno bisogno di regole e istituzioni le fedi come ne ha bisogno il web. All’istinto proprietario delle religioni risponde quello di chi vende spazio telematico. Dopo Gutenberg e la stampa, il cristianesimo non è più stato lo stesso. Tocca ora all’era digitale cambiare per sempre la religione.