ILARIA MARIA SALA, La Stampa 24/6/2012, 24 giugno 2012
L’integrazione impossibile di Hong Kong - Nel quartiere di Wanchai, nell’isola di Hong Kong, c’è un bar molto alla moda che si chiama The Pawn (Negozio di Pegni): offre cocktail e cibo britannico da gastro-pub, ed è uno dei pochi edifici antichi ancora in piedi in questa metropoli in continua costruzione
L’integrazione impossibile di Hong Kong - Nel quartiere di Wanchai, nell’isola di Hong Kong, c’è un bar molto alla moda che si chiama The Pawn (Negozio di Pegni): offre cocktail e cibo britannico da gastro-pub, ed è uno dei pochi edifici antichi ancora in piedi in questa metropoli in continua costruzione. Disegnato da Stanley Wong, un architetto locale, è frequentato da giovani professionisti che parlano un po’ tutte le lingue. Anche se ultimamente, come in tutta Hong Kong, si sente spesso il cinese mandarino (la lingua ufficiale della Cina continentale), che si sovrappone al cantonese parlato qui. Ragazzi con vestiti curati e un forte accento pechinese, che lavorano nella finanza e che transitano dalla ex colonia britannica alcuni anni, alle prese con i «lychee mojito» e i «vodka mango mud» con aria mondana. Ma se i muri potessero parlare... chissà se racconterebbero di altri ragazzi come loro dall’accento settentrionale, arrivati in tutt’altre circostanze ma passati proprio per di qui, da questo negozio dei pegni. Hong Kong infatti ne è ancora piena, e la maggior parte non sono stati convertiti in bar: hanno un bancone molto alto, che permette di non farsi vedere in faccia quando si depone un orologio o un paio di orecchini preziosi in cambio di un po’ di contante, e uno schermo di legno che nasconde alla vista dei passanti. Negli scorsi decenni i principali avventori erano persone appena scappate dalla Cina continentale, arrivate magari a nuoto, in fuga dalla Rivoluzione, dal Grande Balzo in Avanti, dalla Rivoluzione Culturale e dai costanti sconvolgimenti politici, con addosso tutto quello che possedevano: due o tre orologi, qualche gioiello affidato da chi invece non poteva scappare. Hong Kong, che in epoca britannica a lungo ha concesso la cittadinanza alla maggior parte dei cinesi che «toccavano terra» qui, consentiva che da poche banconote si riuscisse a costruirsi una vita intera, con la determinazione degli emigranti, pronti a prendere anche due o tre lavori pur di farcela, e far andare a scuola i figli. Oggi, quindici anni dopo il passaggio di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina, non c’è più bisogno di venire a nuoto: i permessi si ottengono facilmente, e i «continentali» vengono a milioni – alcuni per lavoro, la maggior parte per fare shopping di lusso, sfoderando mazzette di banconote e carte di credito con la spocchia dei nuovi ricchi. Ma nel frattempo, Hong Kong, governata da lontano da Pechino, secondo una formula ambigua chiamata «Un paeseDue sistemi», non è più aggrappata al «tempo preso a prestito» di epoca coloniale, e ha cominciato a mettere radici. Guarda con insofferenza i continentali in coda davanti ai negozi di Vuitton e Cartier, e mostra di avere una coscienza politica che nessuno le sospettava. Lo scorso 4 giugno 180.000 persone (una cifra record) hanno partecipato alla veglia per l’anniversario della repressione armata delle proteste di Tiananmen, e a nulla sono valsi i tentativi, innumerevoli quanto goffi, per far sì che anche Hong Kong dimentichi il 1989. Non c’è più il carismatico governatore Chris Patten, chiamato affettuosamente Ah Pang («cicciotto»), ma un Capo dell’Esecutivo che, malgrado le promesse, di nuovo è stato selezionato da un comitato elettorale e non per suffragio universale. C.Y. Leung, che prenderà i poteri il primo luglio, è sospettato di far parte del partito comunista clandestino (dato che il partito unico del continente non ha ancora voluto registrarsi qui) ed è chiamato da tutti «il lupo». E visto che le condizioni sono queste, invece di rassegnarsi Hong Kong si mantiene allerta, sulla difensiva, pronta a urlare allo scandalo tramite una stampa che continua a essere combattiva. La censura aperta è ancora minima, e Internet può essere navigato senza intoppi ma, come denuncia regolarmente Mak Yin-ting, dell’Associazione dei giornalisti, i media, controllati come sono dai grossi imprenditori con notevoli interessi in Cina, «praticano una costante autocensura, dato che i proprietari dei giornali e delle Tv sono troppo vicini a Pechino: è un problema quotidiano». La diffidenza, poi, è costante: basta dire di star andando in una qualunque città cinese per farsi riempire di raccomandazioni: «Stai attenta a quello che mangi, quando sei là!», dicono tutti. Oppure: «Rubano, in Cina: tieni la borsa sempre davanti a te», e intimazioni di stare attenti per la strada, ai Bancomat, nei negozi... Quest’anno, le tensioni fra cinesi «continentali» e hongkonghesi sono scoppiate in modo imprevisto: i cinesi che vengono qui sono sempre più numerosi, ma sono percepiti come intenti a sfruttare Hong Kong, le sue libertà, il suo rispetto per le regole, e la sua sicurezza, senza lasciare nulla, anzi, snaturando la città. Così, l’inverno scorso un gruppo di studenti ha messo un annuncio su un giornale, chiamando «locuste» i cinesi, e invitando Hong Kong a «svegliarsi» per proteggere i propri diritti. «Le persone qui sono così emotive! - esclama Fiona Wong, ceramista - ma il problema, è politico. Bisognerebbe imparare a parlarsi, senza insultarsi, e invece non abbiamo ancora trovato il modo di farlo. È perché Hong Kong si sente priva di voce in capitolo». E per quanto la Cina ora sia certo più ricca di quanto non fosse prima, Hong Kong sa che il 66% degli investimenti diretti esteri in Cina provengono da qui, e che la spocchia dei nuovi ricchi è fuori luogo. In questi 15 anni, nulla di quanto predetto si è avverato: Pechino non ha «ingoiato» la ex colonia, i capitali non sono fuggiti, Hong Kong non è divenuta irrilevante. I cambiamenti sono stati lo stesso molti, e quell’alto grado di autonomia promesso alla città c’è, ma non è stato sempre mantenuto: un sentimento di maggior timore si è impadronito dei governanti locali, che cercano di indovinare cosa possa fare più piacere a Pechino, e che sono ora avvertiti come più lontani ancora di quando questa era una colonia britannica. Il risultato è sorprendente: un sondaggio dell’Università di Hong Kong ha mostrato che la popolazione di Hong Kong non si è mai sentita meno «cinese» di oggi: il 35% dice di sentirsi «di Hong Kong». A rispondere «mi sento cinese» è stato solo il 15% della popolazione.Il resto dice di essere «cinese di Hong Kong»: e Pechino non ha migliorato le cose, dato che interferenze politiche dal Nord avevano cercato di bloccare la diffusione del sondaggio. A tutto questo si accompagna una ricerca di stabilità e identità nuove: a Shek Kip Mei lo stilista Douglas Young ha aperto una cava di Aladino di oggetti, chiamato «Museo della Cultura», dedicato a Hong Kong. Dice: «Sotto gli inglesi, la cultura locale era considerata irrilevante. Ora dal punto di vista ufficiale si enfatizza solo quella cinese. Per dare dignità a noi stessi, alla nostra storia, alla nostra estetica nata da incontri e scambi di influenze diverse, dobbiamo pensarci da soli».