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 2012  giugno 24 Domenica calendario

CAPITALISTI VIZIATI DALLO STATO


Abbiamo rimosso l’amigdala e stiamo distruggendo il capitalismo. Un’operazione a cervello aperto nella testa del sistema economico sta annullando il mercato e costruendo un mondo dominato dall’incontro perverso di Big Business e Stato. L’amigdala è quella parte del cervello che gestisce la paura. Bene, i salvataggi pubblici — i bail-out bancari, ma anche dei Paesi in crisi — sono come l’asportazione di questa parte di materia grigia: eliminano negli attori economici che sanno di poterne usufruire — in genere perché too-big-to-fail — il rischio, quindi la paura, con conseguenze più che nefaste. Il parallelo è uno dei molti, brillanti passaggi delle argomentazioni di Luigi Zingales (professore di Finanza e Impresa alla Chicago University) nel libro, appena pubblicato negli Stati Uniti, Capitalism for the People (Basic Books). I soggetti con l’amigdala danneggiata o rimossa «tendono a mostrare comportamenti aggressivi nel prendere rischi», dice. Lo stesso fa chi, nella finanza, ritiene di non correre pericoli, tanto qualcun altro (i contribuenti) pagherà le conseguenze delle sue azioni.
Questo intervento nel cervello economico dell’Occidente non è cosa da poco. È la chiave di comprensione della crisi finanziaria esplosa nel 2008 negli Stati Uniti e tuttora in corso in Europa: sia per quel che riguarda le ragioni che l’hanno scatenata, sia per quel che concerne il modo di affrontarla. Il libro di Zingales — commentatore noto anche in Italia, in particolare per le sue analisi sviluppate sul «Sole 24 Ore» — inquadra soprattutto la degenerazione del capitalismo americano: il sottotitolo è Recapturing the Lost Genius of American Prosperity. Ma è certamente anche uno dei testi più originali tra quelli che vogliono aprire una finestra su una crisi che sta cambiando, non per il meglio, il funzionamento dei sistemi economici in America e in Europa.
Per rimanere sui salvataggi di Stato — una delle ricorrenze dei nostri giorni — Zingales fa un altro parallelo, illuminante per la madre di famiglia come per il super-esperto di finanza. Per apprezzare le conseguenze dei bail-out, scrive, «immaginate che ogni volta che provate a ricondurre a una certa disciplina i vostri figli dopo un cattivo comportamento, i nonni dei ragazzi intervengano e li "salvino" per mantenere l’armonia della famiglia. Nel breve termine, questi interventi sembrano benefici, dal momento che i ragazzi sono più felici e l’armonia della famiglia è preservata. Nel lungo termine, tuttavia, finite con figli molto viziati e genitori infelici».
I salvataggi con il denaro dei contribuenti sono diventati la dottrina prevalente in Occidente grazie soprattutto a Robert Rubin. Rubin fu uno dei capi di Goldman Sachs, la banca di Wall Street che è la dimostrazione fisica della collusione tra il Big Business e lo Stato: degli ultimi sei ministri delle Finanze americani, quattro sono usciti dalle sue file. Compreso Rubin, il quale, diventato segretario al Tesoro nell’amministrazione Clinton, nel 1994 fu il maggiore avvocato a favore del bail-out del Messico. Un’operazione — nota Zingales — in apparenza ottima: il Messico si salvò, le banche americane — Goldman Sachs e Citigroup in testa che erano molto esposte — non persero un dollaro, il Tesoro di Washington fece un profitto di mezzo miliardo di dollari. La realtà è che, con quella operazione, i salvataggi diventarono la dottrina, eliminarono il rischio e la paura sia degli Stati che delle banche, che presero rischi sempre maggiori, tanto ci sarebbe stato il salvataggio. Fu l’apertura dell’era dell’azzardo morale. Ai bail-out si dovette ricorrere sempre più spesso. Difficile stabilire se per salvare Thailandia e Indonesia, Brasile e Fannie Mae, oppure Goldman e Citi. Fatto sta che, tre mesi dopo avere lasciato il Tesoro, Rubin divenne presidente del consiglio esecutivo di Citigroup — ma senza responsabilità — e in otto anni incassò 126 milioni di dollari.
Di solito, si reagisce a questi orrori con indignazione, accusando la società capitalista. In realtà, Zingales porta un rosario di esempi di capitalisti collusi con lo Stato e la politica ben al di là dei salvataggi, anche nella normalità del fare affari quotidiano. È questo incontro perverso che sta distruggendo il capitalismo inteso come sistema di mercato. In una brillante invenzione narrativa, l’economista di Chicago usa il suo essere italiano per raccontare agli americani come l’intreccio tra affari, politica e Stato sia all’origine della corruzione, del nepotismo, dell’inefficienza di un sistema, sia sul piano economico sia sul piano sociale. E come ciò annulli il mercato. Quanto più lo Stato dispone di risorse, quanto più grandi e potenti sono le imprese, tanto più l’abbraccio è mortale e sacrifica la concorrenza e i diritti dei consumatori (spesso anche quelli dei lavoratori).
Per mettere la questione in altri termini: all’origine della crisi non è il mercato, nemmeno quello finanziario e nemmeno quelle fumose figure che i politici amano chiamare speculatori. I ribassisti — cioè coloro che vendono senza possederli titoli che considerano cattivi, per poi ricomprarli a prezzi più bassi fidando in una loro caduta — sono anzi tra i principali rivelatori di corruzione e di irregolarità finanziarie delle imprese che studiano, nota Zingales. All’origine della crisi finanziaria sta in realtà la collusione tra Big Business e Stato, il prevalere di una tendenza socialista e predatoria del grande capitalismo. Qui sta la novità piuttosto rivoluzionaria, non solo intellettualmente. «Cercare di opporre business e Stato uno contro l’altro è sempre più uno show laterale, un avanzo dei dibattiti ideologici del XX secolo». I due poli, un tempo forse antagonisti, oggi sono sempre più alleati contro il mercato.
E contro quella che era l’America — sostiene l’economista. Quella del capitalismo del popolo per il popolo, quella che ha beneficiato dell’economia di mercato più di ogni altra nazione al mondo e che al capitalismo ha sempre accordato un enorme consenso, dal momento che faceva il bene di tutti. La degenerazione americana degli ultimi anni — così conosciuta in Italia — rischia ora di togliere legittimità al capitalismo, se questo continuerà a identificarsi nel Big Business dei privilegi, dell’accesso al denaro pubblico, dei super-compensi, della corruzione e del nepotismo, dell’ostracismo alla concorrenza. Zingales non dispera, dice che l’America ha la forza per reagire e fa delle proposte. Tra queste anche il ritorno a quel sano populismo che ha sempre difeso il minuscolo borghese americano dall’aggressività dei potenti senza l’amigdala, privi della paura di dover rispondere delle loro azioni. «Un populismo pienamente pro mercato», scrive.
Pane per un dibattito anche europeo.