Simonetta Fiori, la Repubblica 25/6/2012, 25 giugno 2012
IL FUTURO DEI LETTORI 13
«Faccio questo lavoro da quindici anni. Ma appena ho avuto la sensazione di farlo bene, me l’hanno subito cambiato ». Antonio Sellerio, secondogenito di Elvira ed Enzo, stempera l’eredità ingombrante in uno stile tutto suo, da principe fulvo dell’editoria che guarda alle sfide tecnologiche con una lente ironica e mite. Fa parte d’una storia scritta dai suoi genitori, ma non dà mostra delle impetuosità ribelli proprie del figlio d’arte. «Non ho abbastanza fantasia da pensare di fare altro nella vita», minimizza mentre fa strada nel piccolo appartamento di via di Panico, tra gli arredi e i tessuti di buon gusto scelti dalla madre Elvira per il suo rifugio romano. È entrato in casa editrice a 25 anni, neolaureato alla Bocconi con una tesi sulla Sellerio impresa editoriale. Per lui che aveva studiato sofisticati sistemi di razionalizzazione, fu l’impatto con un laboratorio molto originale, «che stravolgeva tutte le regole del mercato apprese all’università », dice in tono scherzoso. Ma la bonarietà tradisce irritazione quando riflette sul destino dell’azienda di famiglia, e di quelle straordinarie collane blu che hanno reso celebri Tabucchi e Camilleri. «Poco dopo il funerale di mia madre ho ricevuto la simpaticissima telefonata d’un commercialista. Chiamava per conto d’un grande gruppo editoriale. Non l’ho fatto finire di parlare», e qui si riconosce
il timbro materno.
In quella che è stata definita ’la tempesta perfetta’, qual è il suo stato d’animo?
«Sereno. La mia impressione è che la crisi del libro sia stata drammatizzata. Non nego, per carità, il calo delle vendite, anche se negli ultimi tre mesi si registra ovunque una piccola ripresa. Ma si tratta di un arretramento dovuto alla crisi economica, non a un passaggio d’epoca. A leggere le analisi di questi mesi, sembra che la gente non abbia più voglia di leggere».
E invece?
«No, non è così. Il catastrofismo nasce dallo spaesamento dei grandi gruppi editoriali, che finora erano abituati a fronteggiare le difficoltà dispiegando la grande potenza editoriale. Là dove non arrivavano con le loro capacità, ricorrevano alla distribuzione, alle librerie, ai giornali. Ora con l’avvento del libro elettronico devono misurarsi con i giganti Amazon, Google, Apple. E
nessuno sa cosa succederà nel prossimo futuro».
È normale che scatti una reazione di paura.
«Certo, ma il rischio è che — a furia di ripetere che c’è una fortissima crisi del libro — noi quella crisi la produciamo davvero. Una profezia autoavverantesi».
Che cosa intende?
«Prenda le librerie indipendenti. Sono strutture economicamente fragili, in grado di assorbire solo perdite minime. In questo clima terrorizzante, sono paralizzate dal timore di fare passi sbagliati. E cosa succede? Comprano solo i libri
sicuri, autori di bestseller e
celebrities
».
Ma non sono le librerie indipendenti quelle più adatte a misurarsi con la sfida di Amazon? Non a caso le ultime rilevazioni danno in crisi le catene, non le librerie autonome.
«In teoria è così, perché sarebbero in grado di proporre le novità oltre che di soddisfare le scelte del pubblico. Ma l’attuale crisi economica le induce a maggiore prudenza ».
Riscontra maggiori tensioni nel rapporto con queste librerie?
«Sì. Prima non avevo problemi
vendere romanzi di esordienti, oggi fatico a far passare la seconda prova di autori già conosciuti. Penso, ad esempio, alla modalità graduale con cui sono arrivati al successo Gianrico Carofiglio o Alicia Giménez-Bartlett o Marco Malvaldi: non c’è stata un’esplosione, ma una progressiva affermazione».
Sta dicendo che con i librai impauriti questo lavoro non si può fare?
«Sto dicendo che è a rischio un intero sistema, che è quello dei libri. Un libraio deve continuare a proporre le novità che un lettore non s’aspetta. Se questa specificità viene meno, il lettore non avrà più bisogno delle librerie. Un problema non solo economico ma culturale ».
Il nostro mercato è anomalo anche perché i grandi gruppi controllano non solo la produzione, ma anche la distribuzione e i punti vendita.
«È certo un’anomalia che una larga percentuale dei nostri romanzi con Montalbano passi attraverso un editore che è mio diretto concorrente, e cioè ha in catalogo Camilleri. Nei fatti non c’è stato mai un intoppo, ma ragionandoci a freddo non è una cosa che possa rasserenare».
È stato faticoso essere figlio d’arte?
«Al principio era inevitabile che con mia madre ci fossero discussioni. Io provenivo da studi economici, su alcune cose avevo da dire la mia. Ma non c’è stato mai un momento in cui ho dimenticato che quell’azienda l’avevano messa in piedi loro. Se non ero capace di convincerla, mi arrendevo. Ma
confesso che, essendo l’impresa riuscita bene, non mi riusciva difficilissimo
».
Come ricorda sua madre in casa editrice?
«Attentissima, sollecita. Imperiosa e capace di ascolto. Seguiva tutto con grandissima cura: dall’amministrazione ai pacchetti. Non c’era manoscritto che non passasse dal suo tavolo, e lei aveva l’abitudine di firmarli tutti, sia nell’accettazione che in caso di rifiuto. Cerco di farlo anche io, ma tremila all’anno sono davvero troppi».
Sente ancora il bisogno di connel
sultarla?
«Se posso avere tanti rimpianti, non ho certo quello di essere stato poco con mia madre. E, quando ora ci si presentano situazioni complesse, la mia difficoltà non è capire cosa avrebbe pensato. Pur essendo una donna molto originale, m’illudo di immaginare ogni volta come avrebbe reagito. Il problema è invece prevedere dove sarebbe arrivata la sintesi di una nostra eventuale discussione. Apparentemente perentoria, in realtà aveva grande rispetto per un’opinione diversa».
Come le insegnò il mestiere?
«Faceva una cosa che mi dava un fastidio terribile, in realtà il senso l’avrei capito più tardi. Ero laureato in Economia, ma mia madre mi rifaceva i conti. Io calcolavo tutto per benino, le portavo i foglietti e lei si metteva là, con la penna in mano, e due o tre operazioni le rifaceva sempre. Invece quando parlavamo di libri, mi ascoltava con straordinaria generosità».
Rimaneva una mamma.
«Sì, minava le mie certezze, non voleva che mi sentissi troppo sicuro sui miei conti, mentre mi accompagnava nelle cose in cui lei era più solida e io incerto».
Come in tutte le grandi storie d’amore, suo padre Enzo è mancato poco dopo sua madre Elvira.
«Il legame era fortissimo. Dopo la separazione sia sentimentale che della casa editrice, negli anni era avvenuto un lento riavvicinamento. Continuavano a fare litigate epocali, però erano molto vicini ».
Qual è stato il lascito principale?
«La cosa che per mia madre era più importante, e che ha trasmesso a me e a mia sorella Olivia — con cui oggi condivido tutte le scelte — è credere nell’indipendenza della casa editrice come valore assoluto. Nella prima metà degli anni Novanta, ebbe momenti di grandissima difficoltà. Un saccheggio mostruoso degli autori e del catalogo. E non so come sia riuscita a resistere alla tentazione di vendere o cedere delle quote».
Lei ricorda quel periodo?
«Sì, andavo con lei alla fiera di Francoforte e una volta trovai Einaudi che vendeva alcuni nostri libri. Noi eravamo in ritardo con i pagamenti, e gli autori passavano allo Struzzo senza annullare il contratto con Sellerio. Il clima era quello».
Anche lei ha ricevuto proposte di vendere?
«Poco dopo i funerali di mia madre. Non ho fatto finire la telefonata. Se a un certo punto mi rendessi conto che non ce la facciamo più, preferirei chiudere. Ma è una prospettiva davvero lontana».
Una concezione romantica della casa editrice.
«Direi peggio, quasi familistica. Per noi la Sellerio è un pezzo della famiglia. Tra i redattori che ci lavorano c’è un turn over bassissimo: tutte persone che volevano bene a mamma. Anche gli arredi sono rimasti uguali: la scrivania dove sedeva Sciascia, le librerie ottocecentesche...
».
Quello che sua madre chiamava ’il mausoleo’. Però voleva che ve ne liberaste.
«No, tutto è rimasto eguale. E anche i lettori percepiscono questa continuità, come se ogni singolo libro fosse parte di una storia più grande. Ormai abbiamo le rilevazioni quotidiane sulle vendite, e sa qual è il momento di maggior successo per ogni titolo? Il primo week-end. Un po’ come al cinema. Si va a vedere che c’è di nuovo, ma la regia è di per sè una garanzia. Se continua così, posso ritenermi soddisfatto».