Omero Ciai, la Repubblica 25/6/2012, 25 giugno 2012
LADY NARCOS
La morte di centinaia di narcotrafficanti negli ultimi sei anni per la guerra ai cartelli dichiarata dal presidente messicano Calderón ha un primo risultato: le loro mogli, sorelle o figlie, assumono sempre maggiori responsabilità all’interno dei gruppi narcos. «Prima erano le miss», dice Javier Valdez, giornalista di
Riodoce
che nel libro
Miss Narco
ha raccontato l’attrazione fatale tra i narcos e i concorsi di bellezza, «ma adesso le donne stanno prendendo sempre di più posizioni di comando ». Lo conferma Arturo Santamaría, sociologo dell’Università di Sinaloa, e pensa che questo fatto «rafforzerà il narcotraffico e lo renderà più difficile da combattere perché le donne sono più intelligenti e furbe nel dirigere le operazioni». Santamaría ha appena pubblicato un libro,
Las Jefas del narco,
nel quale raccoglie testimonianze di questa rivoluzione. Così se l’ultima vicenda nel gossip di Culiacán è la storia d’amore fra Emma Coronel,
una “miss Sinaloa” e il capo supremo del cartello, Joaquin Guzman, che prima le ha fatto vincere il concorso e poi l’ha sposata; è in corso un fenomeno molto più profondo che può cambiare la storia dei cartelli «perché — ha scritto Santamaría — non c’è nessun altro paese dove le donne giocano un ruolo così importante nel narcotraffico come in Messico».
L’inizio di questo viaggio è una croce piantata nell’asfalto vicino ad un centro commerciale. Ricorda l’ultima grande guerra dei narcos nello Stato di Sinaloa e la morte di Arturo Beltrán Leyva, il 19 dicembre 2009. «I sicari entravano nella case e ammazzavano i
chavos
(i giovani peones) nelle camere da letto. Chiedevano solo “da che parte stai?” e siccome le vittime non sapevano chi fossero, rispondere era come partecipare a una roulette russa: c’era il cinquanta per cento di possibilità di evitare la morte», racconta Javier Valdez. Quella guerra fra i cinque fratelli Beltrán Leyva e Joaquin Guzman “el Chapo”, il narcos più ricco e potente del Messico, non è mai finita.
E ancora oggi nello Stato di Sinaloa — poco meno di tre milioni di abitanti — ci sono, per vendette e scontri legati al narcotraffico, più di duemila morti l’anno. Sono già settecento nei primi cinque mesi del 2012. Molti sono la conseguenza delle scorribande degli “Zetas”, il cartello con il quale si sono alleati i Beltrán Leyva, che entrano a Sinaloa per ammazzare la gente del “Chapo”. Ma altri hanno a che fare con le regole interne del cartello (“una azienda” che fattura oltre tre miliardi di dollari l’anno e ha interessi ovunque, n’drangheta compresa): uccidono i ladri, i violentatori, o semplicemente chi parla troppo. «Abbiamo trovato — racconta Valdez — macchinette di plastica accanto
cadaveri». Voleva dire che il giustiziato rubava auto. «Oggi a Culiacán puoi morire per aver guardato male qualcuno. Qui tutto è narcos. Il mio vicino di casa è narcos. I compagni di scuola di mio figlio sono figli di narcos». Lo Stato di Sinaloa, una striscia di terra fra la Sierra Madre e il Pacifico, è da oltre trent’anni la patria del narcotraffico messicano. I grandi capi sono cresciuti tutti qui. Da Amado Carrillo Fuentes, nato nel ‘56 e morto nel ‘97, socio di Pablo Escobar, fondatore del cartello di Juarez, e famoso come
il signore dei cieli
per la quantità di cocaina che riusciva ad esportare grazie a piccoli Fokker negli Stati Uniti; ai fratelli Arellano Felix, fondatori del cartello di Tijuana. Fino al “Chapo” Guzman. E anche Jesús Malverde, il brigante dell’inizio del secolo scorso diventato “santo dei narcos”, era di Sinaloa. Ancora oggi nelle gole delle montagne della Sierra Madre si coltivano la marijuana e l’oppio che poi si vendono in Ca-
lifornia. E, come spiega Javier Valdez, Guzman è un mafioso vecchio stile. Fa beneficenza, costruisce scuole e chiese, e mantiene un esercito di piccoli trafficanti che dominano il territorio, strada per strada. «A Culiacán il narcos seduce, soggioga», dice
Valdez, «è onnipresente e promette la vita facile e dolce dei soldi e del potere. Gli adolescenti del cartello — prosegue — sono quelli che hanno le auto e le ragazze più belle. Imparano a sparare e a portare le armi ed è come se ti dicessero ‘scemo, non vedi che sei circondato? Arrenditi, tanto nessuno ti può salvare’».
Riodoce
è un piccolo settimanale,
diecimila copie. Che l’anno scorso ha vinto il premio “Maria Cabot” della Columbia University per il giornalismo investigativo. Lo hanno fondato nel 2003 quattro giornalisti stufi della censura e dell’autocensura dei quotidiani locali. «Loro contano i decapitati, noi facciamo inchieste», dice fiero Valdez. Che aggiunge: «All’inizio non volevamo fare un giornale sul narcotraffico. Poi questo è il compito che ci è toccato, se non scrivessi di narcos mi sentirei un vigliacco». Nella redazione di
Riodoce
hanno messo una bomba, tempo fa. E da allora i quattro amici, dopo aver cambiato sede (fuori non c’è scritto nulla, solo il nome del giornale piccolo piccolo sul citofono), con collaboratori e amministrativi, s’incontrano solo una volta alla settimana, quando chiudono il numero. «L’unica cosa di cui siamo assolutamente sicuri — dice Valdez — è di non essere infiltrati. Né dai boss della politica locale, né dai narcos. Sul resto è diffiai
cile parlare. Sulla bomba non abbiamo detto nulla. Qui se accusi qualcuno di volerti uccidere offri l’alibi a qualcun altro per farlo».
I giornalisti uccisi negli ultimi anni sono oltre settanta, più che nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale. Javier Sicilia, il poeta che ha perduto il giovane figlio e ha commosso il paese annunciando che non avrebbe più scritto un verso, sostiene che il Messico è uno Stato in default, fallito. O quasi. Perché il connubio fra narcos e potere politico è «ormai tale che il cittadino è completamente indifeso di fronte alla violenza». «La polizia — dice Sicilia — è corrotta. L’esercito è corrotto. È di fronte alla criminalità organizzata il potere politico preferisce negare l’evidenza, nascondere, occultare, dissimulare. Per loro non c’è alcun attacco alla società civile, al massimo i morti sono narcos che si ammazzano tra di loro». «Ci sono città in Messico — aggiunge Sicilia — dove le amministrazioni locali negano la pubblicità isti-
tuzionale ai giornali che parlano troppo della violenza. Non si deve sapere dei morti ammazzati. È dannoso per il turismo».
Il panorama è completamente cambiato con la nascita degli “Zetas”. Tutti ex militari addestrati nelle scuole antiguerriglia
dell’esercito degli Stati Uniti. All’inizio erano il braccio armato del cartello del Golfo, quello che controlla i porti sul Mar dei Caraibi. Finché non si sono messi in proprio e siccome non gestivano alcun traffico di droga si sono trasformati in una mafia tout court. Hanno cominciato a chiedere il pizzo, a sequestrare persone, a fare affari con la prostituzione.
«Gli Zetas — dice Valdez — non hanno principi. Rapiscono gli emigranti illegali del Sudamerica che attraversano il Messico. Lo fanno per chiedere un riscatto ai parenti che li aspettano dall’altra parte, negli Stati Uniti. Se non hanno parenti li ammazzano».
Un parente negli Stati Uniti lo ha da qualche mese anche “El Chapo”. Sua moglie Emma Coronel che ha la nazionalità americana ha beffato gli agenti dell’antidroga Usa ed è riuscita a partorire un bambino a Los Angeles. Così l’ultimo figlio del più grande capo narcos messicano è statunitense. Invece Sandra Avila Beltran, la “narca” più famosa del Messico e la prima della generazione delle nuove “jefas” (cape), rischia di passarci il resto della sua vita dall’altra parte della frontiera. Ma in un carcere. La “regina del Pacifico” verrà presto estradata e processata negli Usa per essere riuscita a vendere cento chili di cocaina a Chicago.