Luca Tremolada, Nòva24 24/6/2012, 24 giugno 2012
«ANONYMOUS, GLI HIPPY DELLA RETE»
Passi il dipartimento di giustizia americano, l’esercito e l’agenzia per la sicurezza nazionale Usa. Passi anche il Gran Premio del Bahrein ma perché attaccare il sito dell’Indian National Congress? E il blog di Beppe Grillo poi? Se con una penna uniamo su una mappa i target degli ultimi due mesi di Anonymous otterremo un disegno di non facile interpretazione. Il gruppo di attivisti dallo scorso gennaio organizza, conduce e poi rivendica decine e decine di attacchi informatici ai danni di siti web istituzionali e di grandi aziende. Ormai orfani di Assange, non più chiamati a vendicare Wikileaks, Anonymous sembra sempre più senza guida e diviso al suo interno. La decisione evidentemente non concordata di sperimentare una botnet privata sul sito di Beppe Grillo e le successive prese di distanza da parte della “filiale” italiana di Anonymous con tanto di interviste rilasciate da singoli hacker a titolo personale, tweet e messaggi sui blog più o meno ufficiali rende ancora più confusa la strategia di un gruppo anarchico anche nell’organizzazione della propria comunicazione. Tanto da spingere giornali e giornalisti a parlare di cani sciolti, recuperando dall’armamentario da bassa sociologia categorie ed etichette nati nei movimenti indiani metropolitani del 77. «Al contrario in Anonymous come nella maggior parte degli attivisti hacker c’è una assenza di ideologia», riflette Misha Glenny, il giornalista e scrittore tra i pochi che con le sue inchieste ha più volte provato a descrivere gli uomini dietro ai computer, distinguendo tra le reti di cybercrime e l’attivismo hacker. «Semmai sono l’espressione politica di una autentica frustrazione che ha radici nella crisi esistenziale ed economica che sta vivendo il mondo occidentale. Da qui anche l’inaffidabilità di Anonymous – aggiunge Glenny autore di «DarkMarket: Cyberthieves, Cybercops and You» tradotto da Mondadori col titolo «Mafia.com» -. Ultimamente si arrogano il diritto di attaccare chicchessia indipendentemente da quello che sostengono». Eppure, tiene a ricordare il giornalista, pochi sanno che Anonymous ha sostenuto l’opposizione siriana, colpito il cartello messicano dei narcotrafficanti, sono tra coloro che in rete si sono contrapposti agli estremisti algerini, che hanno sbeffeggiato le malefatte delle corporation. Si sono resi protagonisti di azioni di lotta importanti ma rischiano di rendere questo gruppo socialmente e politicamente inefficace. O peggio renderlo strumento di altre organizzazioni governative e non. Chi come Glenny ha parlato con loro, ha avuto la possibilità di incontrare di persona attivisti informatici o ha sperimentato l’intrusione nella propria posta elettronica di hacker prima di concedere una intervista, sa che questo mondo non è la Spectre. Non ci sono personaggi da fumetto, megalomani che accarezzano gatti bianchi e contro-cospirazionisti che vogliono dominare il mondo. Esistono invece organizzazioni di delinquenti informatici, le solite, al soldo delle mafie locali. Funzionari governativi dediti più allo spionaggio industriale che all’intelligence da 007. Gang malavitose dell’Europa dell’Est, i crime network russi e ucraini, gli spacciatori di virus e trojan foraggiati dalle corporation per colpire i concorrenti e piccoli ricettatori di numeri di carte di credito. Ma anche comunità di esperti informatici che percorrono traiettorie imprevedibili. «Sono convinto che l’80% del cybercrime non abbia nulla che vedere con l’hacking – afferma sicuro lo scrittore confidente e amico degli hacker -. Non sono terroristi. Semmai la figura degli hippy è quella che più li descrive». Idealisti ma non ideologhi. Capaci di fare politica senza essere politicanti. Il paragone con il movimento Cinque stelle è fin troppo facile. Anzi, è una scorciatoia: «Sarà interessante vedere già a partire da questo mese il partito dei pirati tedesco eletto all’assemblea di Berlino (a sorpresa ha raccolto il 9% dei voti ndr.). Questo movimento riflette bene le istanze di chi ha imparato la politica attraverso internet. Probabilmente solo tra un paio di anni capiremo se sapranno esprimere una visione del mondo capace di dare risposte politiche concrete. Oppure si ripiegheranno in loro stessi in anonimi partiti locali». Il New York Times, in un recente articolo, ha intercettato e interpretato i primi segnali di una guerra nella guerra, fazioni contrapposte di esperti informatici che si danno battaglia a colpi di attacchi mirati, spesso per motivi politici o ideologici e in altri vari casi per superare e mettere alle corde i rivali. Un tutti contro tutti che potrebbe aver dietro lo zampino dell’intelligence nordamericana. A marzo Shawn Henry, il cybercop numero uno dell’Fbi aveva alzato bandiera bianca ammettendo a marzo sul Wall Street Journal che la guerra al cybercrimine stava prendendo una brutta piega. Un mese fa – dopo vent’anni di Fbi – Henry è passato all’industria di sicurezza CrowdStrike. E oggi propone un nuovo approccio. Al posto di prevenire gli attacchi, tattica questa che sembra non aver funzionato, rispondere agli attacchi hacker con gli stessi strumenti dell’aggressore. Già da alcuni anni, conferma l’autore di Mafia.com, non solo le agenzie governative ma anche il settore privato investe in risorse umane altamente qualificate. Hacker assunti come strumenti di spionaggio industriale. Questa strategia è stata ribattezzata "active defense" o "strike-back". L’idea ha già sollevato più di una perplessità soprattutto sotto il profilo etico e legale. Sempre che si tratti di una provocazione.