Alberto Orioli, Il Sole 24 Ore 24/6/2012, 24 giugno 2012
MEMORIE DI ZOLFO E ORGOGLIO
Uomini-talpa. Sepolti vivi a 510 metri di profondità. Per 40 giorni. Non per incidente, incuria o fatalità. Per protesta. Erano i minatori di Cabernardi, un grappolo di case sulle colline dell’entroterra anconetano, diventato, per un capriccio del Miocene di sette milioni di anni prima, il più grande giacimento di zolfo d’Europa.
Sessant’anni fa, il 5 luglio 1952, mentre la sirena d’inizio turno risuonava in tutta la vallata, quei 400 minatori emergevano, a grappoli sparuti, cinque alla volta, da un buco infinito nella terra. Li riportava in superficie un traballante ascensore di tavolacci e sbarre metalliche (il "gabbione"). Usciti, inforcavano spessi occhiali da sole per proteggere pupille ormai disabituate alla luce; canottiere polverose, brache cenciose, mutandoni. Irineo, Galfardo, Agenore, Leocadio, nomi usciti da una mitologia fai-da-te, riaffioravano, pallidissimi. Fuori, ad attenderli, carabinieri e polizia. L’indicazione del ministro Mario Scelba era stata chiara: circoscrivere e reprimere. Il vice-questore di Ancona impose l’uscita dei «facinorosi» sui camion dell’azienda, lontano da madri, sorelle e mogli che gettavano fiori tra grida e baci condivisi con i bimbi. Anche loro, le donne di Cabernardi, avevano preso parte alla vertenza (un po’ come accade oggi con le mogli dei minatori spagnoli). C’era anche Don Ambrogio Sadori, parroco della vicina frazione di Pantana: «La Cgil ha fatto molto, ma anche le mie preghiere sono servite a qualcosa».
La Montecatini società generale per l’industria mineraria che possedeva quel sito fin dal 1917 aveva annunciato 860 licenziamenti (e allora si licenziava con un "cenno del capo"): finì con 400 "tagli" e cento pensionamenti. Altri 300 minatori furono avviati al "falansterio" di Pontelagoscuro, alle porte di Ferrara – destinazione il petrolchimico – in un villaggio costruito alla bisogna: casamenti tutti uguali, mattoni rossi e persiane verdi, come certi insediamenti di Liverpool. Per i più sindacalizzati, l’ala dura della protesta, si prospettò il trasferimento nelle miniere siciliane. Un drappello prese la via di Marcinelle in Belgio: 12 di loro morirono nella tragica esplosione del ’56. Per la società il sito marchigiano era ormai in via di estinzione. I minatori controbattevano che almeno 40 carotaggi potevano dimostrare la consistenza di una vena invece ancora ricca. Non si arrendevano all’idea che fosse tutto finito: 40 chilometri di gallerie, 10 chilometri di forni per la lavorazione del minerale (i cosidetti "calcheroni" che sbuffavano perennemente esalazioni sulfuree dalla terra), centinaia di carrelli di trasporto e altrettanti muli, alloggiati nelle stalle sotterranee. Non più minatori generici, minatori tracciatori, perforatori, fuochini, carichini, sgabbiatori, come recitava la classificazione ministeriale. Non più i sorveglianti in tabarro nero. Non accettavano che quell’intero ecosistema sparisse. E dopo?
Invece era l’esito inevitabile di una storia di globalizzazione, anche se allora non si chiamava così: negli Usa alla fine degli anni 40 il metodo Frash rivoluzionò l’estrazione del minerale; bastava un getto d’acqua surriscaldata e un tubo di aspirazione per evitare gallerie pericolose, scavi, uomini-talpa, alti costi per separare lo zolfo dal minerale di scarto. La Montecatini capì che il futuro era la chimica, il resto era morto.
La miniera a Cabernardi era il benessere dell’industria rispetto alla durezza di una campagna matrigna, più odiata che amata. Aveva occupato fino a 1.800 addetti. Poco importava se le esalazioni bruciavano le colline tutt’intorno; restavano le viti, una derivata del "bianchello del Metauro" che non andava nemmeno trattata perchè protetta dal precipitato solforoso dei fumi. Il resto si avvizziva giallognolo, non nasceva nemmeno. Passava un funzionario amministrativo, a cadenze regolari; verificava i danni e stabiliva gli indennizzi. Per le famiglie dei contadini-minatori era il momento di sacrificare l’oca più grassa, di offire arrosti di maiale e conigli in porchetta al finocchio selvatico. Più era ricca la dote alimentare, più diventava generoso l’indennizzo.
Era un mondo. Perdere la miniera significava rinunciare a un’esistenza grama, ma in un certo senso "moderna". Quindi gli uomini a protestare giù nel pozzo, le donne in superficie, tra camionette e manganelli, a preparare le vettovaglie (nella "goluppetta") o a impedire l’uscita dei camion dai cancelli della miniera. L’azienda, però, riuscì a isolare i minatori asserragliati tagliando a tratti l’elettricità e la ventilazione. Alla fine anche i viveri furono bloccati. E dopo 40 giorni l’autosegregazione era diventata insostenibile.
Quel mondo il Pci lo fece suo. Il parroco anche: Don Ambrogio dei minatori lo chiamavano. Lo stesso Giuseppe Di Vittorio schierò la Cgil e fece un comizio diventato celebre per rivendicare la dignità di quel proletariato, di quel lavoro. L’Unità di Pietro Ingrao titolò a tutta pagina «I sepolti vivi escono vittoriosi». Ma vittoria non fu. Compromesso piuttosto. «Il minatore lavora in silenzio», dice il proverbio che allude alla necessità di economizzare l’aria; ma quella volta i minatori avevano fatto molto chiasso. Uno scontro così simbolico da indurre Gillo Pontecorvo a girare un docu-fiction ante litteram dal titolo Pane e zolfo (con un clamoroso svarione nel doppiaggio, tutto in romagnolo). C’erano 1.800 abitanti a Cabernardi, la palazzina uffici, le officine, il "dottore", la scuola per i figli dei dipendenti Montecatini, la mensa e la Cooperativa minatori che ancora oggi mantiene l’ombra della vecchia insegna.
Nel ’59 la miniera chiude e la cittadina si svuota. Oggi a Cabernardi vivono 250 anime, la campagna ha ritrovato i suoi colori, le sfumature del grano e del farro. È tornato il bosco, qua e là viti, erba medica e, addirittura, coriandolo. C’è un bar-alimentari dove l’erculeo Chicco taglia bistecche, magnifica salcicce e salumi e Fabiola, alla cassa, combatte con i centesimi e la linea del Pos. L’ufficio postale apre due volte alla settimana, la farmacia per tre ore al giorno. Non c’è il gas, la rete per i telefonini è inesistente, il digitale terrestre Rai non funziona. Ancora "sepolti vivi", ma all’aria aperta, tra colline magnifiche.
Dello zolfo rimane una nostalgia, una specie di saudade, un po’ tragedia scampata, un po’ rimpianto per quell’impeto verso lo sviluppo. Figli o nipoti di minatori non hanno dimenticato: ogni estate nella seconda settimana d’agosto si svolge il Palio della miniera dove le quattro contrade della zona (Cabernardi Est e Ovest, Felcine, detentrice del titolo, e Doglio) si danno battaglia in una caccia al tesoro per cercare la pietra di zolfo. Lo hanno inventato tre ragazzi (Lucio Polverari, Diego Cappellini e Maurizio Greci) per non far svanire il ricordo di quel momento in cui Cabernardi perse una lotta sindacale ma guadagnò un senso di sé, un’idea di popolo solidale e unito in una regione dove ogni poggio è contea.
La vecchia miniera è ormai un Parco e un museo. Il suo imponente pozzo Donegani, il condotto dell’ascensore che portava su e giù i lavoratori fino a 800 metri di profondità, attende ancora di essere rimesso in sesto, così come uno dei tre forni Gill, ancora ben conservato, e parte dei basamenti dei "calcheroni", magari per ospitare un sito visitabile da un turismo curioso di archeologia industriale, natura e buon vivere. L’appalto è già stato affidato, ma i lavori languono. Nel frattempo Parco, Museo e Associazione onlus «La miniera» hanno organizzato anche la parziale riapertura di alcuni antichi sentieri di minatori. Un cammino nella memoria. Se si è fortunati, verso l’imbrunire, ci si può imbattere in qualche cinghiale o in un raro capriolo. Quando c’era la miniera, si tenevano molto alla larga. Il futuro non era lo zolfo. Ma il ricordo può diventarlo.