Gianfranco Bangone, il Sole 24 Ore 24/6/2012, 24 giugno 2012
LO YOGURT DEL NEOLITICO
Non capita spesso che un lavoro scientifico italiano guadagni la copertina di Nature, ed è ancora più raro che sia un risultato archeologico, ma si tratta di una scelta più che giustificata. L’analisi biochimica di resti di vasellame, trovati in un riparo naturale nel Sahara libico, dimostra che i pastori del luogo erano già in grado, nel 5.200 a.C., forse addirittura nel VI millennio, di lavorare il latte per conservarlo. È la più antica testimonianza africana di questa pratica, ma siamo vicini al dato più antico in assoluto: in Anatolia frammenti di vasellame, che conservavano grassi del latte, sono stati datati tra il VII e il VI millennio a.C. Per altri versi il lavoro richiamato sull’ultima copertina di Nature è un tassello del puzzle che si incastra esattamente, dando coerenza a una lunga serie di dati archeologici raccolti negli ultimi venti anni.
Takarkori, è qui che è stato trovato il vasellame in questione, è uno splendido riparo sottoroccia nella catena del Tadrart, un rilievo montuoso che divide geograficamente l’Acacus libico dal Tassili algerino. Il riparo di Takarkori è sovrastato da una parete, che ha la forma di una vela gonfia, e si apre su un’estesa pianura che una volta ospitava un lago di acqua dolce. Il gruppo coordinato da Savino di Lernia, della Sapienza-Università di Roma, ha iniziato a scavare qui nel 2003 e si è reso immediatamente conto che il sito presentava caratteristiche straordinarie: intanto il riparo è stato abitato per oltre quattromila anni e al suo interno sono state trovate 15 sepolture, di cui due contenevano resti umani in ottimo stato di conservazione. La datazione al Carbonio 14 ha indicato il quinto millennio a.C. quindi si può dire che le due mummie sono le più antiche del mondo, mentre nei vari strati del riparo sono stati rinvenuti resti di cereali selvatici, di pesci, di selvaggina, una quantità enorme di coproliti che indicano la presenza di animali tenuti in un recinto, e vasellame di ottima fattura. Takarkori è quindi un insediamento strategico perché consentiva lo sfruttamento delle diverse nicchie ecologiche del territorio circostante e delle risorse disponibili. Ovviamente l’Acacus ha moltissimi ripari sotto roccia, studiati dal gruppo della Sapienza, e una quantità incredibili di graffiti e di pitture rupestri. Insomma "fotografie" della vita del periodo, ma che purtroppo non si prestano ad alcuna datazione diretta. In genere sono scene pastorali che raffigurano uomini e animali: due di queste, a Wadi Teshuinat nell’Acacus e Wadi Tiksatin nel Messak, mostrano chiaramente un pastore che munge una mucca, ma quando? Era questa la domanda a cui era difficile dare risposta. Il vasellame di Takarkori è stato sottoposto a una sofisticata analisi gascromatografica dal gruppo di Richard Evershed, dell’Università di Bristol. Il biochimico inglese lavora in questo settore da molto tempo ed è stato in grado di risolvere un annoso problema tecnico: i contenitori utilizzati nel Neolitico possono aver ospitato vari tipi di grasso, ad esempio di animali macellati, di pesce o forse olii di qualche specie vegetale. Quindi per arrivare a sostenere che in qualche caso hanno contenuto latte trasformato era necessario discriminarli con un procedimento biochimico. Evershed ha scoperto che alcuni isotopi stabili del Carbonio indicano che i lipidi del latte lavorato hanno una "firma biochimica" diversa da quella del grasso di carcasse animali. Il dato più interessante è che più del 30% dei campioni di Takarkori di età Medio Pastorale – tra il 5.200 e il 3.800 a.C. – mostrano la presenza di questo tipo di lipidi, segno evidente che la trasformazione del latte era tutt’altro che un fatto episodico. L’esame gascromatografico porta a ritenere che il grasso provenga da latte di bovini. Il punto è centrale perché il gruppo della Sapienza ha mappato nel deserto del Messak, che dista qualche centinaio di chilometri da Takarkori, circa 190 monumenti in pietra di tipo rituale dove venivano inumate le ossa di bovini macellati. Trenta di questi sono stati scavati e la datazione al Carbonio 14 indica che le ossa che contenevano sono coeve con il vasellame di Takarkori dove c’è evidenza di latte lavorato.
I dati pubblicati su Nature dal gruppo di Savino di Lernia e di Richard Evershed non sono in grado di rivelarci di quale prodotto trasformato si tratti. Comunque sappiamo che i caprini selvatici, come l’ammotrago o Ammotragus lervia, ancora oggi presente nell’Acacus, producono latte con un’alta concentrazione di proteine. Se si munge uno di questi animali e il latte viene conservato in un contenitore i batteri tendono a produrre acido lattico in quantità sufficiente da ridurre il pH sino al punto che la caseina innesca la coagulazione delle proteine. Il tempo necessario dipende dalla temperatura ambientale e dal tenore delle proteine. È una sorta di yogurt del Neolitico e questo procedimento viene utilizzato ancora oggi in Turchia per produrre il Çökelek. Ovviamente i pastori hanno a che fare con il bestiame ogni giorno e quindi, generazione dopo generazione, ne apprendono l’anatomia, conoscono le erbe che consumano e anche le malattie di cui soffrono. È difficile che dotati di queste conoscenze abbiano ignorato il fatto che lo stomaco di un capretto macellato in giovane età contiene latte digerito, quindi cagliato. Da qui a passare a qualche forma più solida di formaggio il passo è breve, anche se questo procedimento di caseificazione presenta qualche scoglio. C’è però da dire che la posta in gioco era piuttosto alta: i neonati digeriscono il latte attraverso un enzima, la lattasi, che scompone i suoi zuccheri in galattosio e glucosio. Con lo svezzamento l’attività dell’enzima si riduce drasticamente e quindi gli adulti hanno spesso difficoltà a digerire il latte fresco.
Ma qualsiasi lavorazione, dalla semplice acidificazione alla caseificazione vera e propria, consente di superare questo ostacolo e di avere una riserva alimentare digeribile che si conserva nel tempo. Il dato di Takarkori è quindi una sorta di turning point destinato ad aprire nuove finestre di indagine nella ricerca archeologica sahariana, e chissà che un giorno o l’altro non possa arrivare un secondo "miracolo": campioni biologici da cui poter estrarre Dna? magari da semplici coproliti? per stabilire se siamo in presenza di specie domesticate o selvatiche. Resta sempre il fatto che Takarkori si è guadagnato un ruolo di primissimo piano nella storia del pastoralismo africano.