Barbara Spinelli, la Repubblica 25/6/2012, 25 giugno 2012
LA RICOSTRUZIONE FARAONICA CHE DETURPA SAN GIULIANO
SAN GIULIANO DI PUGLIA - Siamo abituati a parlare degli anni berlusconiani come di un’epoca di torbidi: torbidi nei palazzi di potere, nei rapporti tra esecutivo e magistratura, nei partiti che avrebbero potuto, se lo avessero voluto, fermare la degradazione della politica, il discredito terribile che oggi
l’affligge.
Siamo meno abituati a considerare le cicatrici che questi anni hanno lasciato sul corpo fisico dell’Italia, sul suo paesaggio, sull’idea che gli italiani si fanno delle proprie città, sul modo in cui le abitano. Sono sfregi profondi (si aggiungono a più antichi sfregi: il sacco di Palermo negli anni ‘50-’70 fu l’acme) e in ampie zone d’Italia sono indelebili: ci hanno cambiato antropologicamente, nessun’alternanza riuscirà a eliminarli. Parlo delle ferite non rimarginate all’Aquila, città che ho visto rinserrata nei ponteggi, dopo oltre tre anni, come un prigioniero impietrito di Michelangelo. Parlo di San Giuliano di Puglia, dove sono andata per capire e vedere com’è iniziato questo strazio cui dovremo ormai dare il nome che merita:
urbanicidio,
rito sacrificale che ha immolato tante città terremotate, riducendo in polvere la parola stessa che usiamo associare alla polis: il vivere
urbano
che incivilisce l’uomo, che lo rende conviviale, aperto al diverso. È stato Antonello Caporale a consigliarmi questo viaggio («Vai lì, è lì che tutto è cominciato») ed è lui
a guidarmi nel borgo che Berlusconi ha rifatto, truccato, storto, e usato.
Tutti ricordiamo il giorno in cui la terra a San Giuliano tremò. Era il 31 ottobre 2002, e alle 11.32 crollò la scuola: schiacciati dalle macerie, 27 bambini della prima elementare morirono con la loro maestra, Carmela Ciniglio. Ricordiamo l’orrore, poi la sera i fari e le telecamere che s’accesero per filmare l’arrivo del Presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Non aveva telefonato a nessuno prima, neanche al sindaco Antonio Borrelli che nel sisma aveva perso la figlia. Aveva bisogno di telecamere e fu davanti a esse che promise la redenzione se non la resurrezione, da vero Re Guaritore. Ripetutamente usò l’avverbio prediletto:
assolutamente.
Assolutamente sarebbe sorta «una nuova San Giuliano». Assolutamente avrebbe «realizzato un quartiere pieno di verde, con la separazione completa delle automobili dai percorsi per i pedoni e le biciclette ». Entro 24 mesi, assolutamente, gli abitanti avrebbero ricevuto «nuovi appartamenti funzionali, innovativi, costruiti secondo le nuove tecniche della
domotica,
in un ambiente verde».
Fu uno sgargiante teatro della morte, il filmato che
Porta a Porta
trasmise quella sera sul Premier in missione. Volti segnati dal dolore, occhi scintillanti, parole che promettevano miracoli in tempi perentoriamente dati per certi. E che visione alla grande! Una scuola già pericolante, mai collaudata dopo una ristrutturazione criminosa, era stata distrutta, le altre case avevano crepe ma erano intatte, e nonostante ciò un intero paese andava rifatto ex novo, come la mappa immaginaria di Borges che è così esaustiva da coprire per intero l’universo del reale, fino a sostituirlo e renderlo del tutto inutile, ininfluente. È la
superfetazione
dei terremoti denunciata da Antonello Caporale: letteralmente, l’affastellarsi di aggiunte ricostruttive decise in un secondo tempo, e superflue. Un pleonasmo. Conta la mappa, non la realtà con le persone che contiene. Nella sceneggiatura cominciarono a proliferare, accanto all’avverbio
assolutamente,
i diminutivi che nel 2009 all’Aquila avrebbero impregnato la
neolingua
delle disgrazie italiane: le casette, gli angioletti, i praticelli, e via vezzeggiando, trasformando la messa in scena del dolore in
kitsch.
La San Giuliano che ho visto non è la cittadina d’un tempo. È divenuta l’occasione di un ciclopico esperi-
mento urbanistico, e un inaudito spreco di denaro pubblico che ancor oggi paghiamo. È stata invenzione di bruttura, disumanizzazione di una città, spudorata circolazione di denaro dello Stato a vantaggio di una cricca chiusa: le tre cose vanno insieme. Un paese minuscolo, di circa 1.000 abitanti, è stato metamorfosato in una sorta di metropoli: con fontane monumentali, con un parco della memoria che imita il memoriale dell’olocausto a Berlino, una scuola mastodontica che potrebbe ospitare migliaia di bambini e invece ne accoglie non più di 98. All’elenco si aggiungono altre assurdità: una piscina olimpionica (il paese è essenzialmente abitato da anziani), un Palazzo dello Sport, una strada di 700 metri attorno alla città
costata 5 milioni di euro, un auditorium, un mega edificio per la succursale dell’università del Molise, un centro polifunzionale
necessario
all’accademia. L’università è accostata alla nuova scuola: la targa all’ingresso pomposamente certifica la destinazione dell’edificio, ma l’università qui non è venuta mai. Chi c’è qua dentro? Un call center.
I quartieri, gli appartamenti ipermoderni, le grandi opere annunciati da Berlusconi sono tutti monumen-tali, tutti sconfinatamente sovradimensionati. Tutti pensati non per gli abitanti che hanno ricevuto quest’inattesa e misteriosa manna, ma per magnificare il taumaturgo, per far scena, come facevano scena Nerone o Pietro il Grande. Il vice del Re Guaritore è Guido Bertolaso, l’angiolone della Protezione civile. Ed ecco come si presenta la Nuova Gerusalemme molisana: nella città bassa la piazza 31 ottobre 2002, teatrale e fredda, le case disegnate e colorate con le sue forme bizzarre, che nulla hanno a vedere con il vecchio paese. La piazza è quasi sempre vuota, mi dicono in città: è dissuasiva. Ci sono scalinate in pietre pregiate, strisce pedonali non dipinte ma di marmo, e a ridosso della piazza una strada inutile, addirittura in porfido.
Il visitatore, se non è guidato, difficilmente si raccapezzerà. Avrà l’impressione di una manna grandiosa ma misteriosa, appunto. Nessun mistero invece, come Caporale spiega perfettamente (
Terremoti Spa,
Rizzoli 2010, in particolare il capitolo su «teoria e pratica del terremoto infinito»). Sin da principio la strategia fu chiara, ineluttabile: perché il cataclisma possa essere convertito in
occasione,
occorre che il fabbisogno di soldi e di ricostruzione diventi infinito, che il numero di terremotati incongruamente lieviti, che i comuni sfasciati si moltiplichino ad libitum. L’area sismica andava estesa: perché più largo il cratere, più si spende, si specula e si scrocca. Michele Mignogna, condirettore del giornale
Il Ponte online,
mi ricorda i nomi della cricca che confezionò in vitro il modello emergenziale, ingrossando le spese e lucrando. In primis Claudio Rinaldi (nel frattempo indagato per abuso d’ufficio e corruzione: uomo di Bertolaso, amico di Balducci e Anemone. Bertolaso stesso. Michele Iorio, Presidente della Regione e Commissario alla ricostruzione (nel frattempo condannato in primo grado per abuso di ufficio, indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, concorso formale per reato reiterato, e per aver «esteso abusivamente l’area del cratere non avendone la competenza né la legittimazione»).
È il paradigma dell’Italia che viviamo. I governi colpevolizzano gli italiani che vivono al di sopra dei loro mezzi, ma sbagliano bersaglio quando impudentemente pontificano. Sono loro che pur di sceneggiare e lucrare ci hanno fatto vivere sopra i nostri mezzi. È così quasi ovunque: in Campania dal terremoto dell’80, in Molise, in Abruzzo. Nel suo bel libro su camorra e
immondezza campana, Tommaso Sodano racconta molto bene come malaffare politico e malavita, in combutta, abbiano fatto dell’Italia uno dei più corrotti, indebitati paesi del mondo. Non c’è calamità naturale, non c’è dramma dei rifiuti, che non diventi banchetto, robba da divorare, terra da stuprare, morte oscenamente trasfigurata in opportunità da presunti Uomini Nuovi. Le parole d’ordine dell’homo novus — scrive Sodano — sono «passato, disastro, cambiamento, novità, futuro». Altro non fu il terremoto in Irpinia: «appalti agli amici e spreco di denaro pubblico». (Tommaso Sodano,
La Peste,
Rizzoli 2010).
Abbiamo visto come i diminutivi siano il marchio dell’homo
novus.
A chi visitasse San Giuliano consiglio uno sguardo sulla Fonte degli Angeli, in vetro di Murano e ceramica, ideata da Sabino Ventura e dalla giapponese Yumiko Tachimi. È installata nel patio nella nuova scuola “Angeli di San Giuliano”: ventisette obesi putti bianchi, ventri e sederi ridondanti, che ridono ebeti sotto gli spruzzi d’acqua. Chiara D’Amico, un’amica che viene dal vicino comune di Jelsi, mi guarda smarrita. Dice che non riesce a guardare, le si rivolta lo stomaco. I putti ricordano il Pegaso fatato
Papo,
che piace ai bambini in età d’asilo.
A questo serve la struttura emergenziale. Nell’emergenza tutto è permesso, le leggi e normali gare vengono aggirate, il cittadino sgrana gli occhi, infantilizzato. Si formano piccole cerchie: sono gli invitati al banchetto. E quando finisce la fase dell’emergenza se ne apre un’altra subdolamente affine: la fase della «criticità » (Monti ha finito col chiuderla). Mi dice Michele Petraroia, ex segretario della Cgil, vicino all’associazione
Libera
di Don Ciotti, oggi consigliere regionale del Molise: «San Giuliano servì da cavia per il modello Berlusconi-Bertolaso. Un meccanismo preciso: il Commissario per la ricostruzione diveniva Presidente della Regione, la Protezione civile prendeva ogni potere esautorando gli amministratori locali, Palazzo Chigi accentrava le operazioni garantendo risorse. Il mezzo erano le
ordinanze
della Presidenza del consiglio, che fissavano i criteri di ricostruzione e la ripresa economica della zona, e grazie alle quali venivano eluse leggi e gare d’appalto. Solo grazie all’ultimo governo Prodi divenne obbligatoria la cosiddetta rendicontazione. Il piano è costato in dieci anni 1 miliardo di euro: un torrente spropositato rovesciato su zone che spesso non ne avevano alcun bisogno». I comuni terremotati erano 25-30 (secondo altre stime 18). Divennero 84. Il risultato? «Una ricostruzione fermatasi al 35
per cento, le scuole non messe in sicurezza, il calo demografico, le imprese chiuse, lo spopolamento di San Giuliano».
Si parla poco degli architetti, che si sono prestati alla creazione delle città-cavia. Si parla poco dell’offesa, dell’umiliazione che il brutto secerne, soprattutto in un paese come l’Italia. L’urbanicidio è fatto anche di questo, e un giorno gli architetti dovranno ripensare la loro responsabilità. Tra le persone straordinarie che ho incontrato nel Molise, vorrei ricordarne una in particolare: è Don Antonio Di Lalla, parroco di Bonefro e delle annesse, fatiscenti casette provvisorie che ancora ospitano 10 famiglie di sfollati. Dirige un giornale indispensabile per chi voglia conoscere l’Italia che si oppone
agli scempi:
La Fonte — Periodico dei terremotati o di resistenza umana.
Dice Don Antonio: «La domanda che dobbiamo porci è: che fine ha fatto tutto il danaro messo a disposizione? Il fatto è che si preferisce il superfluo — mentre parla penso alla
domotica,
alle strade in porfido, alla scuola abnorme di San Giuliano — ma si lascia incompiuto l’essenziale, in modo tale che si eterni questo clima di dipendenza nei confronti di chi distribuisce risorse. Ci sono stati sprechi enormi, ma i soldi sono stati dati per opere morte; opere fatte e chiuse (come l’università fantasma). Non per opere dove l’uomo ricominci il lavoro e la vita cittadina normale».