Gianni Trovati, Il Sole 24 Ore 25/6/2012, 25 giugno 2012
PENSIONE PIÙ LONTANA MA PIÙ RICCA
Centro. La riforma delle pensioni scritta appena prima di Natale con il decreto "Salva-Italia" ha raggiunto tutti gli obiettivi principali, riducendo il peso della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo e nello stesso tempo garantendo assegni più congrui a chi va a riposo con i nuovi parametri. Parola della Ragioneria generale dello Stato, che certifica il successo nel suo report annuale sulle dinamiche della spesa previdenziale e sanitaria, il primo dopo il "Salva-Italia". A leggere a fondo analisi e tabelle, però, si scopre che il successo non sarà per tutti, e dipende anche da scommesse macro-economiche tutt’altro che scontate.
I numeri chiave
I calcoli di Via XX Settembre mettono in luce gli effetti della doppia mossa che ha caratterizzato la riforma: l’innalzamento dei requisiti previdenziali, che secondo la Ragioneria ritardano di tre anni l’uscita del lavoratore medio, e l’estensione generalizzata del metodo di calcolo contributivo, prima riservato ai lavoratori più giovani (e quindi destinato a far sentire i propri effetti pieni solo fra una quindicina d’anni). Visto il principio-guida del contributivo, in base al quale "tanto versi durante la vita lavorativa, tanto riceverai di pensione", è la matematica a determinare il primo effetto della riforma: assegni più tardi, ma più ricchi rispetto a quelli che sarebbero arrivati nei prossimi anni con il vecchio sistema.
Per i lavoratori dipendenti uomini, per esempio, il trattamento previdenziale di vecchiaia dovrebbe sempre garantire tra il 70-75% dell’ultima retribuzione , in prospettiva, anche l’80-85% (in termini di tasso di sostituzione netto, cioè il rapporto tra l’ultimo reddito da lavoro e il primo trattamento previdenziale, al netto degli effetti fiscali e contributivi), evitando così di scendere verso quota 50% come accadeva secondo le vecchie proiezioni a chi anche nel mondo pre-riforma sarebbe stato investito in pieno dal contributivo.
Gli autonomi
Effetti simili (i dettagli sono nelle tabelle pubblicate a fianco) si incontrano anche nelle pensioni anticipate, che nel nuovo sistema scattano dopo 42 anni di lavoro (41 per le donne, mentre le vecchie anzianità per "quote" sono destinate a sparire del tutto dal 2014), e anche per i lavoratori autonomi.
Il loro era un fronte particolarmente scoperto con le vecchie regole, che avrebbero prodotto pensioni medie anche intorno al 30-40% dell’ultimo reddito, mentre ora non si dovrebbe mai scendere sotto il 50-60 per cento. In questo caso, l’incremento è frutto anche della nuova aliquota contributiva, che sale progressivamente dal 21 al 24% e insieme all’innalzamento dei requisiti offre una soluzione parziale al problema: i livelli pensionistici ufficiali garantiti dalle nuove regole sono migliori ma restano ancora bassi.
Il nodo versamenti
I numeri, come accennato, sono frutto dei versamenti contributivi, come dimostra il fatto che la distanza fra vecchi e nuovi tassi di sostituzione cresce nelle categorie (in particolare le lavoratrici del settore privato) a cui la riforma riserva i maggiori allungamenti nei periodi da trascorrere al lavoro. I singoli lavoratori, però, per vedersi davvero riconoscere i livelli previdenziali ipotizzati nelle tabelle della Ragioneria, devono percorrere una carriera lavorativa continua e senza intoppi, meglio se con periodici miglioramenti retributivi che fanno crescere anche il tesoretto dei contributi su cui poggerà la loro vecchiaia.
Per i lavoratori discontinui, precari, interinali, o per chi viene espulso in anticipo, la musica cambia, e la pensione rischia di essere assai più leggera: nel loro caso, poi, è difficile confidare nel ruolo cadetto ma cruciale della previdenza complementare, più volte richiamata dai tecnici del l’Economia, per il semplice fatto che anche la pensione di scorta va finanziata.
Le basi del sistema
Proprio per questi motivi, come sottolinea anche la Ragioneria, le «previsioni dipendono in misura significativa dal quadro macro-economico», cioè dalle performance del Paese. Ed è qui che la scommessa si fa particolarmente ottimista.
Le proiezioni (precedenti al l’ultimo Def) poggiano su un tasso di crescita medio del l’1,5%, arrivano a stimare una disoccupazione ridotta al 5,5% e vedono al lavoro fino al 74,3% delle persone fra 20 e 69 anni, con un tasso di attività che vola 12,3 punti più in alto rispetto ai livelli reali di oggi.
Certo, come accade sempre quando si parla di pensioni le previsioni sono a lunga scadenza (arrivano al 2060), e la crisi attuale non deve per forza macchiare tutti i numeri del futuro: i documenti ufficiali di finanza pubblica, su cui si fondano i calcoli della Ragioneria, negli ultimi anni si sono rivelati viziati da eccessivo ottimismo, e in un Paese stagnante anche nei 10 anni pre-crisi performance economiche così "tedesche" sembrano più un auspicio che una ragionevole certezza.
Insomma, la riforma previdenziale – anche sotto il profilo della sostenibilità – funzionerà davvero solo a patto che Pil e occupazione si muovano nella direzione ipotizzata dall’Economia. In caso contrario, sappiamo già ciò che ci attende: si dovrà nuovamente riaprire il "cantiere delle pensioni".