Federico Rampini, la Repubblica 24/6/2012, 24 giugno 2012
WALMART LE LEGGI DEL SUPERMERCATO
Il capitalismo contemporaneo, come lo conosciamo noi, ha una data di nascita: compie cinquant’anni. Quella data è il 2 luglio 1962, quando Sam Walton apre il suo primo supermercato al numero 719 della Walnut Avenue nella cittadina di Rogers, Arkansas. Lo battezza Walmart, un marchio destinato a trasformare la grande distribuzione e non solo quella. Il potere d’acquisto delle famiglie, la divisione internazionale del lavoro, i rapporti tra America e Cina, i diritti sindacali: non c’è settore della vita economica sul quale Walmart non eserciti la sua influenza. Per mezzo secolo la sua filosofia si è ridotta a un semplice slogan pubblicitario, “Always Low Prices, Always”, sempre prezzi bassi, sempre. Con quell’avverbio ripetuto all’inizio e alla fine, lo slogan pubblicitario è banale ma ossessivo, martellante: proprio il metodo con cui Walmart ha perseguito quella promessa fino in fondo, con una coerenza spietata, sbaragliando concorrenti e stravolgendo antichi tessuti sociali. La destra lo celebra come un fulgido esempio dei benefici di massa del mercato, l’economista liberista Charles Krakoff ha suggerito che gli venga assegnato il premio Nobel per la pace. A sinistra, e in molte comunità locali, Walmart è il simbolo di un capitalismo disumano, distruttivo, che ha peggiorato le diseguaglianze.
Fin dalle origini, la sua marcia è impressionante: nei primi cinque anni di vita conquista l’Arkansas, nel 1968 estende il suo raggio d’azione al Missouri e all’Oklahoma. Da quel momento l’espansione accelera, come un’armata d’invasori i supermercati Walmart avanzano occupando il territorio degli Stati Uniti, e via via molti paesi stranieri.
Oggi sono 10.271 gigantesche superfici di grande distribuzione, che possono andare dai diecimila ai venticinquemila metri quadri ciascuna, in quindici paesi tra cui Cina e India. Con più di due milioni di dipendenti, Walmart è il più grande datore di lavoro privato del pianeta (lo superano l’esercito cinese e le ferrovie indiane). Da vent’anni a questa parte è la più grande azienda mondiale per fatturato, tra le società quotate in Borsa. A quota 450 miliardi di dollari, le sue entrate nel 2012 superano il Pil di 154 Stati nazione. Negli Stati Uniti l’onnipresenza di questi ipermercati è tale che ogni settimana cento milioni di americani vi fanno la spesa: è un terzo della popolazione nazionale, bambini inclusi.
Nella gestione della logistica, dei trasporti e delle consegne, Walmart è una macchina da guerra con un’efficienza superiore al Pentagono. Lo dimostrò concretamente nel settembre 2005 dopo l’uragano Katrina: quando i soccorsi di Stato erano in ginocchio, Walmart fu il primo ad arrivare a New Orleans per spezzare il suo isolamento, con 1.500 camion di beni di prima necessità e centomila pasti gratuiti. Nazione nella nazione, Walmart è perfino autonoma dal punto di vista energetico, non ha bisogno di comprare corrente dagli Stati Uniti poiché possiede la sua compagnia elettrica, la Texas Retail Energy. Nei decenni della sua fulminea espansione, Walmart ha riscritto le regole del capitalismo a sua immagine e somiglianza, ha sconvolto rapporti di forze e gerarchie di potere, ha disegnato la nuova geografia della produzione mondiale. Come spiega l’economista Nelson Liechtenstein, della University of California Santa Barbara, «Walmart ha cancellato cent’anni di storia in cui la distribuzione era subalterna alla grande industria. Adesso la grande distribuzione sta al centro, ha il potere, mentre il settore manifatturiero è diventato un vassallo, completamente soggiogato». Una delle innovazioni su cui Walmart ha fondato il suo modello è la creazione di "marchi della casa”: prodotti commissionati per la clientela Walmart, affidati a grandi imprese di beni di consumo, ma con il controllo assoluto del distributore su prezzo, qualità, confezione, marketing, pubblicità. Un esempio da manuale resta il lancio delle bibite Sam’s Choice, che in un solo biennio si conquistarono il terzo posto per le vendite in America dietro marche potenti come Coca e Pepsi.
La dimostrazione estrema della centralità di Walmart nel capitalismo contemporaneo è il ruolo di avanguardia che ha svolto nella globalizzazione. Fin dai primi anni Novanta, il gruppo ha voluto che la Cina fosse al centro del suo sistema di acquisti. Oggi, sui seimila fornitori globali da cui Walmart compra i suoi prodotti, l’80 per cento sono cinesi. «Walmart e la Cina sono i due soci di una grande joint-venture», osserva l’economista Gary Gereffi della Duke University. Con quasi trenta miliardi di dollari di prodotti made in China acquistati ogni anno per finire sugli scaffali di questi ipermercati, Charles Krakoff ironizza sul fatto che «non c’è un attivo commerciale della Cina verso gli Stati Uniti, bensì un attivo commerciale tra la Repubblica Popolare e Walmart».
Questo colosso incarna anche il volto più distruttivo, e reazionario, del capitalismo americano. A cominciare dalla famiglia fondatrice, i sei fratelli e sorelle Walton che tuttora possiedono la maggioranza del capitale. Con oltre cento miliardi di patrimonio personale, la dinastia Walton ha più ricchezza del 30 per cento di tutta la popolazione americana meno abbiente. E c’è il sospetto che lo stesso gruppo Walmart con il suo impatto economico-sociale abbia contribuito attivamente a questa dilatazione delle diseguaglianze sociali. Non soltanto per il suo formidabile impulso verso le delocalizzazioni, che ha accelerato il declino dell’industria americana. Anche nel proprio mestiere, Walmart è un’azienda feroce. Uno studio fatto a Chicago dalla Loyola University ha dimostrato che entro diciotto mesi dall’apertura di un nuovo ipermercato Walmart, sono falliti 82 operatori della distribuzione sui trecento attivi nel vicinato. «Per due posti di lavoro che crea, ne distrugge tre», è il bilancio della ricerca. L’impatto è perfino peggiore se si guarda alla “qualità” del lavoro che crea. Il dipendente medio di Walmart riceve uno stipendio di 20.774 dollari lordi all’anno, che lo situa sotto la soglia della povertà ufficiale se è il capofamiglia di un nucleo medio di quattro persone. Walmart rifiuta ogni assistenza sanitaria al 56 per cento dei suoi dipendenti. Per i “privilegiati” ai quali offre qualche forma di polizza sanitaria, l’azienda impone un contributo di cinquemila dollari all’anno cioè un quarto dello stipendio lordo. Di fatto fa pagare allo Stato ciò che rifiuta di versare ai propri dipendenti: nel solo Massachusetts, per esempio, oltre cinquemila dipendenti dei suoi supermercati sono così poveri che finiscono per usufruire del Medicaid, l’assistenza sanitaria pubblica riservata agli indigenti (e pagata dal contribuente). Il sindacato non ha diritto di fare proselitismo e di reclutare iscritti all’interno di questi ipermercati. In cinque Stati Usa sono in corso processi in cui l’azienda è accusata di avere sistematicamente calpestato le leggi sul lavoro imponendo straordinari non retribuiti. Il New York Times
ha pubblicato delle ispezioni interne in cui la stessa Walmart rileva numerosi casi di sfruttamento di manodopera minorile.
Per la destra americana, nei confronti della quale la famiglia Walton è sempre generosa di finanziamenti, questo gruppo è un benefattore della società. I suoi sostenitori citano uno studio di Global Insight (pagato dalla stessa Walmart) secondo cui una famiglia del ceto medio-basso risparmia in media 2.500 dollari all’anno facendo la spesa in questi ipermercati. I consumatori sembrano essere d’accordo. Un sondaggio realizzato nel 2004 all’epoca della sfida presidenziale tra George Bush e John Kerry rivelò che il 76 per cento dei clienti di Walmart votavano per il repubblicano, una percentuale ben più alta della media nazionale. Numerose ricerche confermano che “la nazione Walmart” ha una base popolare nettamente orientata a destra. Non solo Walmart ha impresso un’influenza inaudita sul “modello di sviluppo” americano che è all’origine di questa crisi: è anche nei reparti di questi ipermercati che si plasma una visione del capitalismo, un’idea del mercato, un consenso liberista che a novembre può decidere il risultato dell’elezione presidenziale.
Federico Rampini