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 2012  giugno 24 Domenica calendario

LE MANI DEL PIANISTA


Lo ascolti suonare e non smette di sorprenderti. È un ragazzo che scintilla tra le note, un fenomeno quasi inquietante, un prodotto clamorosamente ben riuscito della globalizzazione. Magari hai assistito altre volte a un concerto del cinese Lang Lang, acclamatissimo divo del pianoforte, e ne conosci già la follia acrobatica, la genialità di comunicatore, la spettacolare musicalità gestuale, l’occhio rotondo da cyber-folletto, la zazzera impunita e l’apertura di mani straordinaria, capace di coprire dodici tasti (un pianista “normale” ne cattura dieci). Eppure ti stupisci ancora, com’è accaduto la volta prima e come accadrà nella successiva.
Bang Bang, lo chiamano gli americani. Un suo concerto ti spara in testa e si dirama nel cervello. Forse Lang Lang è troppo di tutto: virtuosismo, nitidezza del suono, incomparabile velocità di mani… C’è chi lo trova iper-tecnico, e chi sostiene invece che abbia un
cuore musicale sterminato. Certo può sembrare strano, o persino irritante (dirlo è politicamente scorretto?), che un musicista arrivato dalla Cina ci insegni Mozart, Beethoven e Chopin, toccando vertici che lo incoronano, oggi, come la giovane star del pianoforte più richiesta e pagata a livello internazionale. Ma che spaventi o piaccia, l’esito della performance è garantito: Lang Lang è un ciclone in grado di magnetizzare ogni canale del tuo ascolto, e di farti sembrare nuovi e inauditi i brani più famosi.
Giunto nei giorni scorsi a Roma come protagonista di un intero festival organizzato da Santa Cecilia, Lang Lang — che conta Obama tra i suoi fan, che appare nell’elenco stilato da Time delle cento personalità più influenti del mondo, che il 22 luglio sarà tra coloro che a Londra, nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, porteranno la torcia, e che col suo carisma, definito il “Lang Lang effect”, ha spinto più di quaranta milioni di bambini cinesi allo studio del pianoforte classico — ci racconta il suo destino di pianista e i segreti del suo strumento.
Da quali virtù nasce la sua fortuna?

«Posso solo spiegare nella mia prospettiva ciò che serve per suonare bene. Sapienza artistica, molta esperienza, sensibilità culturale e ispirazioni originali per “ricreare” il pezzo in termini musicali. Inoltre bisogna trovare un buon equilibrio col repertorio tradizionale, barocco e classico, perché dalle radici della musica non si prescinde».

Più in generale, cosa si richiede a un bravo pianista?

«Oggi più che mai, non ci si può concentrare solo su un compositore o un periodo storico. È necessario avere
un raggio d’interessi molto vasto suonando stili diversi. Ed è fondamentale adoperarsi per diffondere la cultura musicale. I mass media non danno spazio alla musica classica, il che è gravissimo. Chi ha certe doti e un buon seguito di pubblico ha il dovere di focalizzarsi sull’educazione».

Qual è la sua storia?

«Scoprii il pianoforte a due anni grazie a un cartone animato di Tom e Jerry, e ne avevo cinque quando diedi il mio primo concerto. Poi lasciai la mia città, Shenyang, per trasferirmi con mio padre a Pechino e frequentare il Conservatorio. Con una borsa di studio, a tredici anni, volai al Curtis Institute di Filadelfia, e l’inizio della mia carriera internazionale avvenne nel ’99, quando suonai allo statunitense Ravinia Festival nel Concerto per pianoforte di Ciaikovskij con la Chicago Symphony. Arrivarono presto inviti dalle massime orchestre americane ed europee: la Filarmonica di Vienna, quella di Berlino…».

Nella sua formazione ha avuto dei punti di riferimento ideali tra i grandi pianisti del passato?

«Sono stati quattro, molto diversi tra loro: Horowitz, Rubinstein, Michelangeli e Glenn Gould. Il primo è un artista completo e dinamico: pare un universo con un’infinita facoltà di espandersi, e dimostra che le possibilità d’interpretazione della musica sono illimitate. Rubinstein è la bellezza di un’anima, ma anche la struttura di un pezzo: coniuga alla logica sentimenti ed emozioni. Michelangeli è il massimo del controllo pianistico e del pensiero musicale. Una sua esecuzione permette di addentrarsi nella testa di un compositore. Ha una chiarezza mirabile e una rigorosa precisione. Quanto a Gould, viaggia in una dimensione altra.
Va sempre nella direzione opposta a quella del più prevedibile senso della musica che sta interpretando. Eppure funziona! È pazzesco! Per suo tramite la musica guarda se stessa allo specchio: rovesciata e perfetta».

Oggi che rapporto ha con lo strumento? Deferenza, rispetto, amore? Ci sono momenti di aggressività?

«È il mio migliore amico, ma anche con gli amici capita di litigare. A volte il pianoforte cerca di mostrarti chi è il boss. A volte sei tu a sforzarti di farglielo capire. La lotta può essere tremenda… Ma mi diverto sempre a suonare. Succede a tratti che sia noioso fare pratica, studiare molte ore al giorno. Lo era soprattutto quand’ero bambino. Ma suonare in concerto è sempre fantastico».

A chi non sa niente del pianoforte, come spiegherebbe la differenza tra tasti bianchi e neri?

«Sei nel Grand Canyon e stai sull’orlo di un burrone. I tasti bianchi sono al di qua del bordo, in zona più sicura. Non garantita, dato che comunque tu sei da solo nel mezzo del Grand Canyon. Ma i tasti neri sono più pericolosi, perché ti mettono in bilico su quel limite. Li tocchi e stai camminando su un margine rischiosissimo, a filo con il nulla. Questa è la mia sensazione».

Le mani di un pianista, per essere “magiche”, devono rispettare criteri di dimensioni e forma? Le dita funzionano meglio sulla tastiera se sono lunghe?

«Idealmente sì. Ma si sa che ci sono pianisti bravissimi che hanno dita solide e corte. A volte l’ampiezza è eccessiva, e ciò nonostante il risultato è splendido perché l’interprete le conosce e le controlla. Non c’è una regola: conta capire la propria mano. Alicia de Larrocha
ha mani piccole con cui suona in modo superbo. E Daniel Barenboim, con mani non grandi, fa cose strepitose. Molto dipende dalla tecnica e dalla logica del lavoro».

Dalla coordinazione?

«Sì. Se le dita sono lunghe, in teoria, tutto è più facile. D’altra parte quelle corte possono stare più vicine ai tasti, il che spesso aiuta a ottenere una gamma più estesa di colori. Le mani grandi sono più funzionali a certi accordi, eppure il bellissimo suono di Claudio Arrau, come anche quello di Joseph Hoffman, pianista stupefacente, sgorgava da mani minute…».

Ciò che conta è il tocco?

«È essenziale. Essere un buon pianista significa avere tocco e sentimenti. Bisogna provare emozioni e riversarle sulle dita. Cogliere simultaneamente un qualcosa
sia con il cuore che con le La qualità del tocco da che dipende?

«Principalmente dalla scuola pianistica da cui si proviene. Ci sono alcune scuole di base. Tedesca, russa, francese. E italiana: Busoni, Pollini…».

Qual è la sua?

«Ho iniziato con la russa: il mio primo insegnante era connesso a quello stile. Poi ho studiato con maestri francesi e italiani. Oggi ci sono anche ottimi professori inglesi e americani. La buona notizia è che il mondo diventa sempre più piccolo! Sono tanti gli intrecci tra le varie scuole. Forse la maggiore differenza consiste nell’approccio europeo occidentale e in quello europeo orientale. Nel primo si è più vicini ai tasti e si hanno mani più “strutturate”, mentre nel secondo le dita scendono più piatte sulla tastiera, e cambia il livello emozionale».

Vuol dire che gli slavi sono più appassionati?

«Anche la musica dell’Europa occidentale può essere ricca di passione, ma è diverso suonare Mozart o Rachmaninoff. Ovvio che anche Mozart è ricco di emozioni, ma l’intensità è più immediata e travolgente in Rachmaninoff».

Lei ha conquistato un’immagine formidabile grazie al suo culto delle tecnologie: è stato il primo pianista a dare un concerto su “Second Life”, ha un numero incredibile di siti che la riguardano…

«… e ho appena festeggiato il mio trentesimo compleanno a Berlino suonando con Harbie Hancock e cinquanta giovani pianisti in streaming con CamUp, una nuova tecnologia che permette agli utenti di condividere un evento con gli amici in chat. Ho pure suonato nel videogioco Gran Turismo e interpretato un film in 3D,
Flying Machine, ispirato alla biografia di Chopin. E naturalmente adoro Internet e l’iPod. Come tutti quelli della mia generazione, sono un drogato di tecnologia e consapevole della forza dei suoi strumenti. Mi stanno dimostrando che possono davvero aiutare i ragazzi a comprendere la bellezza della musica classica, che non deve riguardare solo un’élite. Una sonata di Chopin può coinvolgerli molto più di una canzone di Lady GaGa».
La classica è più giovane del rock?

«È infinita e senza tempo. Non può non interessare i giovani: basta che la conoscano. Non è un sound destinato ai salotti. Può funzionare magnificamente come colonna sonora della vita di oggi».

Leonetta Bentivoglio