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 2012  giugno 25 Lunedì calendario

PALERMO

— Un’altra prova della trattativa mafia-Stato è scomparsa, chissà da quanto tempo. E questa volta, il giallo è nel palazzo più autorevole d’Italia, il Quirinale. Non si trova la lettera di minacce che i familiari di alcuni boss detenuti inviarono all’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, nel febbraio 1993. Secondo i magistrati di Palermo, quel documento avrebbe segnato l’avvio della trattativa sul carcere duro, poi conclusa a novembre, con la mancata proroga di 300 provvedimenti di 41 bis firmata dal ministro della Giustizia Giovanni Conso. Nei mesi scorsi, una copia della lettera era stata trovata quasi per caso dai pm di Palermo, nell’archivio del ministero della Giustizia. Adesso, da una telefonata
intercettata fra l’ex ministro Nicola Mancino e il consigliere della presidenza della Repubblica Loris D’Ambrosio, i magistrati scoprono che l’originale della lettera non è custodito nell’archivio centrale del Quirinale. Il dialogo è del
25 novembre 2011.
L’APPUNTO FANTASMA
D’Ambrosio
(
D):
«Questo può essere l’unico tema nuovo».
Mancino
(
M):
«Ma a me Parisi (l’allora capo della polizia, ndr) non mi ha mai parlato di lettere».
D:
«Il problema è: questa lettera inviata a Scalfaro, non so poi gli altri destinatari, dovrebbe stare pure qua. Io questo ragiono. Cioè, voglio dire, nell’archivio di Stato, nell’archivio no di Stato, nell’archivio centrale nostro, cioè dove noi versiamo tutto ciò che arriva al capo dello Stato. Quindi, la cosa strana è
che qui io posso dire che non è mai arrivata una richiesta di questo genere… cioè per trovare questa lettera, e vedere se Scalfaro ci aveva scritto un appunto, qualche cosa boh, non lo so».
Evidentemente, dopo la notizia di quella lettera di minacce a Scalfaro ritrovata casualmente dai pm, anche il Quirinale avrebbe fatto una verifica nel proprio archivio. E non è emerso proprio nulla, con grande sorpresa di D’Ambrosio.
UN DIALOGO A TRE
La telefonata fra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio prosegue
con delle considerazioni che i pm di Palermo ritengono molto importanti. I due autorevoli interlocutori ipotizzano che il presidente Scalfaro potrebbe aver voluto agire con grande discrezione sul tema del 41 bis, coinvolgendo solo poche persone: l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. È lo stesso sospetto dei magistrati, che nel loro atto d’accusa coinvolgono «in concorso » per la trattativa anche i defunti Parisi e l’ex vice capo del Dap Francesco Di Maggio, il braccio operativo di Conso.
M:
«Ma a me Scalfaro non ha mai
detto niente. Ma anche Parisi non mi ha detto che ci si doveva preoccupare di un alleggerimento».
D:
«Sì, ma questo è avvenuto, in maniera diversa…».
M: «Si vede che è avvenuto attraverso colloqui».
D:
«Sì, sì».
M:
«Diciamo interpersonali… se non colloqui fra persone affidabili da parte del presidente dell’epoca».
D:
«Uh, uh».
M:
«Quindi Parisi, quindi Conso ».
D:
«Certo è chiaro».
LA MISSIVA DEL MISTERO
Una copia di quella lettera inviata a Scalfaro (e per conoscenza anche al Papa, ai ministri della Giustizia e dell’Interno, a Maurizio Costanzo e Vittorio Sgarbi) è adesso agli atti dell’inchiesta sulla trattativa.
Ma come dice D’Ambrosio, sarebbe stato importante leggere l’originale del documento, magari con gli appunti del presidente Scalfaro. Per comprendere cosa accadde dopo. I pm hanno più di un sospetto: la presidenza della Repubblica avrebbe caldeggiato la sostituzione dei vertici del Dap: disarcionato Nicolò Amato, nel giugno ‘93, arrivarono Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio. Con una nota scritta consigliarono subito al ministro Conso di non prorogare 300 provvedimenti di 41 bis, «al fine di assicurare un segnale positivo di distensione», scrissero. A novembre, Conso eseguì: oggi dice però che fu una sua iniziativa personale. Ed è il motivo per cui l’ex ministro della Giustizia e l’ex capo del Dap, Capriotti, sono accusati a Palermo di false dichiarazioni.