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 2012  giugno 23 Sabato calendario

IL SANGUE, LE RISSE E I DISPERATI —

All’1.49 della notte ancora ci sono 21 gradi. Un bimbo d’un anno, appena compiuto, dorme sotto un giubbettino azzurro: continuava a rigirarsi nel passeggino e la mamma s’è decisa a inventarsi una coperta; il nonno materno monta la guardia, indaffarato nella strana impresa di usare un pur spesso filo d’erba come stuzzicadenti dopo aver riposto una forma di grana nel sacchetto. Intanto due amici hanno steso un lenzuolo ben attenti a farlo aderire per terra scostando le lattine accartocciate, e un ragazzotto ubriaco ha abbracciato un albero facendosi, nella concitata operazione, la pipì addosso. Poi c’è anche chi, puntualmente, sviene e precipita nel sonno, o nell’incoscienza. Si risveglierà ore dopo se non l’indomani — al massimo, nel corso del tempo qualche passante incuriosito, indifferente, oramai abituato si sarà giusto chinato in allerta come sull’orlo di un burrone — con attorno altri compagni di sventura, altri passeggeri di questo irrisolvibile buco nero rappresentato dai dintorni della Stazione Centrale.
Dentro l’hanno ripulita, rifatta e rimessa a nuovo. Non c’era niente e ci sono cento negozi. Fuori è un altro mondo. Lo stesso da una vita. Dove capita che le magnolie muoiano ghiacciate. Dove si ripetono risse e pestaggi, regolamenti di conti e spaccio di droga. Dove aprono un cantiere e i lavori si fermano. Facile obiezione: suvvia, una stazione, per di più in una metropoli, non è un atollo caraibico, il disordine e il degrado sono naturali, fisiologici. Vero, ci mancherebbe. Ma quel laghetto sull’asfalto cos’è? Sangue. Ah. Si sono appena pestati. Arriva la polizia.
Non danno nomi ed età e provenienza, questo soltanto raccontano i genitori del bambino appisolato beato (tra i 25 e i 30 anni, inflessione che pare romena, lui atletico e in canottiera, lei graziosa e sguardo birichino): «Abbiamo una casa a Roma. Siamo saliti perché amici ci hanno detto che a Milano c’è tanto lavoro. Siamo a Milano da due notti, gli amici non rispondono al cellulare, siamo abbandonati. Non possiamo tornare a Roma, non abbiamo soldi».
Il posto preciso si chiama piazza Luigi di Savoia. Tenendo la Stazione Centrale davanti, è sul lato destro. Il lato sinistro è occupato da piazza IV Novembre. Come tutti i luoghi hanno una clientela affezionata. In Luigi di Savoia vivono da sempre gli europei dell’Est; in IV Novembre senegalesi, ivoriani, ghanesi, marocchini, egiziani, tunisini. Ci sono volti stanchi di lavoratori che sorseggiano una birra al baracchino in perenne sforamento d’orario, prostitute africane scese dai treni dal Piemonte nei loro stretti e sgargianti abiti che attendono un passaggio per la statale, certi ghigni tremendi di tipacci sfregiati in viso, barboni di sessant’anni, gruppi che salgono sui tram al capolinea e scendono quando il vecchio dinosauro su rotaia si rimette in moto. In IV Novembre c’è una specie di ufficio dell’Atm, l’azienda dei mezzi pubblici. Un dipendente prende malissimo la domanda sull’andazzo del posto («Scusa non ci vedi? Te lo devo spiegare io?») salvo sbuffare, all’apparenza convinto, che una volta era addirittura peggio, e dunque ciao. Alle spalle del dipendente Atm un profilo di transenne, è il cimitero delle piante. Non le magnolie, che sorgono sull’altro lato, e sono state stese dall’ultimo gelo invernale; questi alberi sono platani, in numero di 15, abbattuti nell’ambito dei lavori di riqualificazione esterna. I resti dei platani non sono stati rimossi, nonostante le promesse. Né è ripartito, sulla piazza centrale, l’ampia piazza Duca d’Aosta, il cantiere che collegherà l’asse stradale al sottostante metrò. Per colpa della Dec, la società colosso delle opere pubbliche precipitata in disgrazia perché travolta da inchieste giudiziarie, gli operai se ne restano a casa disoccupati, la cosa si trascina di ritardo in ritardo, consueto e noioso finale all’italiana... Senonché, notizia di questi giorni, a Roma è stata raggiunta l’intesa per la ripresa dei lavori. Fabio Battaggia, l’amministratore delegato di Grandi Stazioni, il gestore della Centrale, sottolinea la «velocità» nella risoluzione di una «situazione» che «rischiava di paralizzare il cantiere per anni».
Da una grata rettangolare sul marciapiede sale l’aria calda del metrò: hanno sistemato dei possenti archi gialli, uno via l’altro, dritti, di traverso, mezzi storti, per creare una barriera bastarda che impedisce ai barboni di sdraiarsi per dormire. Farebbe fatica perfino un contorsionista del circo. Tolte le macchine della polizia non si vedono pattuglie e divise dei vigili: è un lamento diffuso dei milanesi di questo quartiere, che nei ghisa hanno eccessiva cieca fiducia oppure che i ghisa li prendono come bersaglio a prescindere per ogni caso d’insicurezza urbana.
Infinite code di tassisti in sudata attesa di passeggeri. I conducenti parlano di un calo di clienti. In giro s’incontra gente scesa dal treno che spara parolacce contro i taxi introvabili. Lusso e prelibatezze nei negozi della stazione, librerie multipiano, vetrine scintillanti, i fattorini abusivi, scheletrici sopravvissuti all’eroina, e gente, tanta, tanta gente accasciata, priva di senso. Un popolo di giorno zoomato e controllato dalle oltre cento telecamere interne e di notte sdraiato a pancia in su nei giardinetti, zaffate di puzza di piscio a ondate, un colpo di tosse a qualche metro di distanza, chi è?, eccolo, un ubriacone, si china, vomita l’anima, più in là ha appena parcheggiato il bus che collega all’aeroporto di Malpensa, gonnelline all’aria di cinque amiche di ritorno da Londra che corrono urlando. Facciano pure tutto il baccano che vogliono, qua il sonno è profondo. Per stanchezza, per il vino, per semplice comune abitudine.
Andrea Galli