Sergio Rizzo, Corriere della Sera 22/06/2012, 22 giugno 2012
ECCO IL PIANO CHE DIMEZZA LE PROVINCE. E IN TOSCANA E’ AL SICURO SOLO FIRENZE —
Che cosa potrà inventare Mario Cardinali se davvero il primo «spaventoso» effetto del decreto legge che ha in mente il ministro Filippo Patroni Griffi sarà l’accorpamento della Provincia di Pisa con quella di Livorno? Una simile eventualità terrà sulle spine lui e tutti gli altri livornesi. Ma ne siamo certi: per il fondatore del mensile satirico il Vernacoliere, autore di titoli folgoranti come «Primi spaventosi effetti delle radiazioni - È nato un pisano furbo», pubblicati nel maggio 1986, subito dopo la catastrofe atomica di Chernobyl, sarà una sfida estrema. Niente affatto fantascientifica. Perché la prossima puntata della saga infinita delle Province potrebbe davvero proporre questa e altre situazioni simili. Come ci si è arrivati?
Ricapitoliamo quanto accaduto a partire dal 2008, quando questi enti sembravano diventati il nemico pubblico numero uno tanto della destra quanto della sinistra. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», sentenziò Silvio Berlusconi il 10 aprile del 2008, a «Porta a porta», alla vigilia delle elezioni che l’avrebbero riportato a Palazzo Chigi. Il suo avversario Walter Veltroni l’aveva già anticipato: «Cominceremo da subito, abolendo le Province nelle aree metropolitane». Archiviato il voto, s’innescò la marcia indietro. «Vorrei abolire le Province per risparmiare ma la Lega non è d’accordo», disse il Cavaliere l’11 dicembre 2008. E il 22 aprile 2010 alzò bandiera bianca: «Abbiamo fatto un calcolo e abolendo le Province si risparmiano solo 200 milioni. Troppo poco per iniziare una manovra che scontenterebbe i cittadini. Però non concederemo più nessuna nuova Provincia». Consci della fragilità di certe promesse, alcuni politici si erano invece già attrezzati per allargare le frontiere del mondo provinciale. Esempi? Se il leghista Davide Caparini chiedeva l’istituzione della nuova Provincia della Valcamonica (capoluogo Breno, 5.014 abitanti), il suo collega di partito proponeva di creare in Trentino-Alto Adige una terza Provincia autonoma: la Ladinia. Ironia della sorte, il relativo disegno di legge vedeva la luce poche settimane prima che il ministro del Carroccio Roberto Calderoli fosse costretto a presentare una proposta per ridurre le Province. La famosa lettera della Banca centrale europea recapitata il 5 agosto 2011 al governo italiano parlava chiaro: «C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o fondere alcuni strati amministrativi intermedi, come le Province». E pure la Lega si dovette piegare. Ma per finta: il taglio svanì in poche ore come neve al sole di Ferragosto.
Poi è arrivato Mario Monti, e nel decreto salva Italia è comparsa una disposizione all’apparenza categorica. Il trasferimento a Comuni e Regioni delle funzioni attribuite alle Province, relegate a organi non più elettivi con un numero limitato di consiglieri scelti dalle amministrazioni comunali. All’inizio questa tagliola doveva scattare automaticamente entro aprile 2012. Poi è successo il finimondo. Mentre il presidente berlusconiano della Provincia di Latina Armando Cusani ringhiava «noi ce ne andiamo dall’Unione delle Province italiane», il segretario di Rifondazione comunista dava man forte ai rivoltosi con queste parole: «Vi appoggiamo perché la vostra è una battaglia di democrazia». Così nella versione definitiva del salva Italia è spuntato un comma che prevede una legge dello Stato, da emanarsi entro dicembre prossimo, per rendere operativa la riforma. Un modo per prendere tempo e rimandare la resa dei conti. Organizzando la resistenza.
Scontato, dunque, che quella legge prevista dal salva Italia stia incontrando serie difficoltà in Parlamento, dove è stata sollevata perfino la solita questione della «copertura finanziaria». E fosse soltanto quello il problema. Il pericolo più grande a quanto pare viene dalla Corte costituzionale, che il 6 novembre esaminerà i ricorsi prontamente presentati contro il decreto di dicembre. Se li dovesse accogliere, come dicono molti esperti, la riforma di Monti salterebbe e le Province resterebbero in vita esattamente come oggi.
Ecco perciò che accanto al piano A, avviato sul binario morto, è spuntato un piano B. Da attuarsi forse con decreto legge, in parallelo alla revisione della spesa, che potrebbe contenere anche una micidiale pillola avvelenata per tutti gli enti locali. Ossia il divieto alla costituzione di nuovi enti o società per funzioni che può svolgere direttamente l’amministrazione. Per evitare rischi di ricorsi alla Consulta il piano B prevede che le Province mantengano tre funzioni quali strade, ambiente e gestione delle aree vaste.
Le giunte saranno comunque azzerate e i consigli, non più elettivi, ridotti all’osso come previsto dal decreto salva Italia. Il numero degli enti verrebbe però tagliato, utilizzando criteri in parte simili a quelli della proposta abortita di Calderoli. Sopravviveranno soltanto le Province in gradi di soddisfare almeno due dei seguenti tre requisiti: superficie di almeno 3.000 chilometri quadrati, popolazione superiore a 350 mila abitanti e oltre 50 Comuni presenti nel territorio. Dalle attuali 107 (tolte la Valle d’Aosta e le Province autonome di Trento e Bolzano) si passerebbe a 54. Meno di quelle (59) esistenti nel 1861. In realtà, attenendosi scrupolosamente ai parametri, il loro numero dovrebbe addirittura scendere a 50. Si è tuttavia stabilito di salvare i capoluoghi di Regione che pur non hanno i requisiti, come Venezia, Ancona, Trieste e Campobasso. Dieci Province, inoltre, dovrebbero scomparire in un secondo momento se e quando verranno finalmente istituite, com’è previsto fin dal 1990, le città metropolitane. Nell’elenco, oltre alla stessa Venezia, troviamo Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Reggio Calabria.
Ma non significa che di questi enti definiti da Berlusconi il 5 marzo del 2008 (naturalmente prima dei vari ripensamenti) «inutili e fonti di costo per i cittadini» ne rimarrà appena una quarantina. Con i criteri di cui sopra, in Toscana scomparirebbero tutte le Province tranne Firenze. Idem in Liguria, con l’eccezione di Genova. Nell’Emilia-Romagna, sette su nove. In Sicilia, cinque su nove. In Piemonte, la metà esatta. E qui comincerà il gioco degli accorpamenti. Siena e Grosseto accetteranno la coabitazione? Pisa e Livorno, così vicine, saranno disposte a mettere da parte antiche rivalità? Prato si rassegnerà a rientrare a Firenze oppure preferirà Pistoia? Modena e Reggio-Emilia continueranno a essere separate dall’aceto balsamico? E come reagiranno i lodigiani davanti alla prospettiva di essere riuniti ai milanesi?
Tanto basta per dare le dimensioni delle complicazioni che potrebbe portare con sé un’operazione del genere. Né rassicura il fatto che l’agguerrita Unione delle Province guidata da Giuseppe Castiglione potrebbe perfino essere d’accordo con lo schema di massima. Senza poi considerare variabili di altro genere, ma tutt’altro che trascurabili. Ricordate com’è evaporata la scorsa estate la proposta calderoliana? In partenza dovevano finire sotto la tagliola tutte le Province con meno di 300 mila anime: 37. Ma a patto, fu chiarito, che avessero anche un’estensione inferiore a 3 mila chilometri quadrati: e si scese a 29. Poi, rivendicando l’autonomia, insorse il governatore del Friuli-Venezia Giulia Renzo Tondo: eccoci a 27. Quindi i siciliani contestarono l’ipotesi di sopprimere Enna e Caltanissetta (25). Infine protestò il presidente sardo Ugo Cappellacci (22). E il presidente della provincia di Isernia, Luigi Mazzullo, avanzò il sospetto che a Roma avevano preso l’insolazione (21). Poche ore dopo, l’annuncio: abbiamo scherzato. Sicuri che non si possa ripetere?
Sergio Rizzo