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 2012  giugno 23 Sabato calendario

SONO 900 MILA I NUOVI SCHIAVI DEL PAKISTAN

Quella della schiavitù è una si­tuazione tra le più consoli­date e all’apparenza infran­gibili in Pakistan. Una realtà che coinvolge un gran numero di minori, almeno il 60 per cento dei bambini e giovani sotto i 14 anni co­stretti a lavorare, ma anche molte donne adulte, a loro volta madri o sorelle dei giovani lavoratori. Il si­stema schiavistico in Pakistan, Pae­se dai molti tratti feu­dali che la fede isla­mica maggioritaria non solo non riesce ad ostacolare, ma che in molti casi incenti­va con i suoi lati di­scriminatori verso donne e minoranze religiose.
Legge anti-blasfemia, segni distintivi obbligatori per ade­renti a fedi diverse, segregazione e matrimoni preceduti da conversio­ne forzata e in molti casi da rapi­mento e stupro sono capisaldi del clima di sottomissione delle mino­ranze cristiana, indù, buddhista e ahmadiya come la povertà che ca­ratterizza la maggioranza di queste comunità, complessivamente il 3 per cento della popolazione pachi­stana che si attesta attorno a 180 mi­lioni.
A punto che casi di vendita di reni in caso di stretta necessità economica, per garantire cure o benessere a con­giunti oppure per cercare di uscire dal vicolo cieco del debito, sono tutt’altro che infrequenti. Non sem­pre però con le conseguenze previ­ste, per quanto dure. In questi gior­ni è diventata di pubblico domino la vicenda di una donna cristiana, costretta in schiavitù per debito con tutta la famiglia, che ha sacrificato un rene nella speranza, risultata va­na, di rompere la catena della schia­vitù dal datore di lavoro islamico.
Farzana Bibi aveva visto dissolversi due anni fa la possibilità che il duro lavoro suo e del marito avrebbero potuto affrancare l’intera famiglia dal­la schiavitù. La tu­bercolosi del consor­te, Rehmat, si era in­fatti aggravata, co­stringendolo a la­sciare il lavoro dopo avere subito per l’en­nesima volta percos­se dal datore di lavo­ro insoddisfatto della sua resa. Un abbandono che rendeva impossibi­le restituire 110mila rupie (circa 920 euro) al proprietario della fornace che decise di tenere Farzana e i suoi cinque figli sotto la sua custodia per garantirsi la restituzione del debito. Un fardello troppo grande per la donna, che decise così di cedere al­le insistenza di un mediatore man­dato dal datore di lavoro affinché vendesse un rene per 150mila rupie. L’espianto, a cui il marito si era op­posto, avrebbe dovuto portare alla donna la libertà, ma è diventato in­vece il bottino del mediatore, scom­parso con il denaro. Un fatto – preor­dinato dal suo datore di lavoro per avere in pugno la vita della donna e dei suoi figli – che ha portato alla morte per crepacuore di Rehman e la necessità per Farzana di aprire un nuovo debito con il proprietario di un’altra fornace, dove da allora la­vora con i figli, in condizioni fisiche e psicologiche facilmente immagi­nabili. A denunciare il suo caso e a cercare una soluzione dando un la­voro autonomo alla donna è oggi la Federazione cristiana unita (un en­te protestante) con il sostegno del periodico Pakistan Christian Post .
Il caso di Farzana è tuttavia emble­matico della realtà delle 11mila for­naci di mattoni che occupano 800-900mila “nuovi schiavi”, di cui 250mila minorenni, e della situazio­ne di miseria in cui molti apparte­nenti ai gruppi meno favoriti della società – inclusi tanti provenienti dalle minoranze – si trovano a vive­re, sottoposti al potere indiscusso di latifondisti e imprenditori musul­mani nel disinteresse della politica e della giustizia.