Gabriele Romagnoli, la Repubblica 18/6/2012, 18 giugno 2012
IL DERBY DELLO SPREAD
E adesso cosa dovremmo dedurre dagli aruspici di Danzica? Che il sogno della ripresa può durare al massimo sei minuti? Che non c’è alternativa alla sottomissione alla Merkel giacché i tedeschi san meglio come effettuare una manovra, dispongono di riserve auree eccezionali e tutto quel che i poveri “pigs” possono opporre è la trovata estemporanea di un tecnico?
La situazione è più disperata che seria. Lo dimostra non tanto il risultato, quanto la mole di significato attribuita a una partita di calcio. Nei quarti di finale degli Europei si affrontano Germania (la squadra e l’economia più solide del continente) e Grecia (finanze da serie B e una compagine di sbrindellati reduci dal fronte russo). E via con il “derby dello spread”, con le iperboli metaforiche. Addirittura Omero contro Hegel. Tesi-antitesi-sintesi già mirabilmente tradotte dalla curva lazio- crucca in Miro-tiro-gol. L’evidenza della disperazione è proprio in quella necessità di raccattare speranza nell’impossibile, nella visione miracolistica del futuro per cui tutto è ancora a portata di
mano: se la Grecia riesce a battere la Germania, allora tutti possiamo ancora salvarci. Come? Alla brutto giuda. Senza preparazione, senza talento, senza nemmeno particolare sacrificio: tutti dietro e prima o poi qualcosa accadrà. In effetti a un certo punto qualcosina accade, la Grecia pareggia il bilancio, ma lì si apre la voragine dei conti. È come se si realizzasse l’insegnamento della tragedia greca, una di quelle cose che tutti studiano senza niente impararne: mai peccare di hubris, lascia stare la superbia,
non sfidare il destino. Tieniti
l’uno a zero, dai retta a me, che almeno esci a testa alta.
L’urgenza di metafore sportive è un segnale preoccupante. Perché? Perché sappiamo tutti che non funzionano, giacché la realtà non è figlia di un campionato ma di un destino, non di una squadra ma di una nazione. Ogni quattro anni ci rifilano la bufala della spinta all’economia di un Paese data dall’eventuale vittoria ai Mondiali. La riproporranno anche nel 2014. Dimenticando un particolare: chi ha vinto nel 2010? La Spagna. Come è messa l’economia iberica due anni dopo? La stanno sostenendo a forza di trasfusioni in cui il sangue lo danno le eliminate nei turni che l’hanno portata al trionfo.
Eppure non sappiamo schierare la logica e mandare in tribuna l’illusione fideistica. Dammi un segno, giacché “in hoc signo vinces”. Ma i segni sono distribuiti a ogni minuto sulla strada di casa,
non concentrati nei novanta
minuti d’azione in uno stadio lontano.
L’improbabile è la nostra specialità, quella in
cui potremmo andare sul podio alle Olimpiadi. Confidiamo nel Golia di turno perché schiuda le porte della salvezza. Abbiamo inventato il presagio per darci coraggio. Guarda, gli stormi volano verso nord, in sogno è apparso il nonno, Samaras ha infilato Neuer. È questa la rivincita? Questo il segnale della riscossa? Abbiamo accumulato frustrazione e andiamo allo stadio, anche senza spostarci dal divano, per sfogarla. Eccola lì, Angela Merkel, oggetto di ingiurie da destra e da sinistra, intercettate
o no che vengan o .
Perché è inflessibile, economicamente scorretta, terribilmente poco cristiana: non le interessa lasciarsi indietro qualcuno, foss’anche un’intera nazione. La verità è che quella nazione è rimasta indietro
da sola.
I tedeschi fanno vacanze nelle isole
greche, si stendono sulle spiagge e notano qualcosa che non va: due greci giocano con i racchettoni a mezzo metro da loro, ad altrettanta distanza dalla riva. Non ci sono regole sul bagnasciuga. Inconcepibile per gli ospiti, naturale per i padroni di casa. Indovina chi sopravvive? Indovina chi vince tra una squadra che ha un’intera generazione di giocatori formata sulle braci di una sconfitta e che oggi potrebbe mandare in campo non una, ma tre formazioni in grado di battere la Grecia e un reame dell’improvvisazione che ancora (e per sempre) si regge sulla leggenda di un successo (2004) costruito,
guarda caso, da un tedesco, conoscitore delle regole per la costruzione di un muro.
Finisce come era inevitabile. Vincono la programmazione, la strategia, il talento a disposizione di un progetto. Perdono le illusioni. Quelle che altrove (qui) chiamano: stellone, catenaccio, culo di Sacchi o altro ct di turno. Economia e calcio sono rette parallele destinate a non incontrarsi. Non è che se domenica l’Italia esce dall’Europeo significa che si debba uscire
dall’euro (anche se c’è da giurarci che qualcuno, uno a caso, lo dirà). Non è che se Mario Balotelli si fa espellere dobbiamo cacciare Mario Monti. Le partite parlano il loro linguaggio e dicono quel che sanno e che noi sapevamo sin da prima: la Germania vale il doppio esatto della Grecia. Se fosse diversamente dovremmo dedurne che senza programmazione, strategia, regole, si muore. Ma a quel punto, i sostenitori dell’illusione, a quel punto sì, direbbero: era solo una partita.