Pietrangelo Buttafuoco, la Repubblica 18/6/2012, 18 giugno 2012
STORIE GALEOTTE
C’è una storia per ogni sbarra. Ogni galeotto è infatti un “cartagloria,” perché ogni condanna è romanzo. Ogni detenuto, sbattuto sulla branda – di notte, con la luce accesa – conta il tempo e si racconta una storia. Per ogni bugliolo, il secchio dove il respiro è fatto
tanfo, c’è una parola. Ed è lunga quanto un libro.
Gli scrittori che finiscono in prigione cominciano una nuova pagina. E le loro storie, come la Fuga dai Piombi
di Casanova, sono un romanzo. Ecco allora Scritti galeotti, di Daria Galateria (Sellerio), francesista, che ha saputo spalmare un ventaglio di destini tutti diversi ma accomunati da una stessa meta: la cella.
È con finezza e sapienza che Daria Galateria ripercorre questo cammino di segregazione, persecuzione e gabbia, descritto in una parentesi di storia che va dai Lumi ai giorni nostri. Nel racconto gli italiani sono tanti: c’è Luigi Settembrini (suggerito all’autrice da Elvira Sellerio), poi Filippo Tommaso Marinetti, Giovannino Guareschi – dal lager tedesco alle prigioni della Repubblica italiana – quindi Adriano Sofri. E infine Goliarda Sapienza.
Esistenze sorvegliate e poi punite. Memorabile è il capitolo dedicato a Jean Genet; sconcertante quello sul genio comico P.
G. Wodehouse: imprigionato in un manicomio dell’Alta Slesia, l’inventore di Jeeves produce un diario radiofonico zeppo di ironia, che i tedeschi useranno per
propaganda e che nel dopoguerra gli costerà l’ostracismo come collaborazionista.
Gli scrittori finiscono in prigione a causa di colpe e pretesti. In questo curioso elenco ci sono crimini comprovati (come l’uxoricidio nel caso di Verlaine, Burroughs, Mailer e Fallada) ma anche gli inganni dello Spirito del Tempo. Voltaire, infatti, è
imbastigliato.
E così Diderot e
Sade. E ci sono le tragiche pagine di bieca oppressione, come quelle di Silvio Pellico, che, rinchiuso nello Spielberg, scrive e adotta un topolino.
Con la fine della Seconda Guerra mondiale, i nemici sconfitti sono trasformati in imputati, e Daria Galateria la storia del loro “cielo a scacchi” attraverso Robert Brasillach, Ezra Pound, e soprattutto Knut Hamsun, che, perso per sempre, reclama l’oblio: «Volere l’immortalità serve solo a colare a picco senza stile». Tutti i detenuti scrivono. Anche sui muri. All’Ucciardone, a Palermo, è rimasto scolpito il poema eterno della maledizione, fatto di sole tre parole: «Pane, pacienza e tempo». Carta e penna
sono la droga preziosa dei prigionieri. Se avete corrispondenze coi detenuti sapete bene di cosa si parla. Solo negli spacci delle case circondariali si trovano quelle cartoline vintage (primi piani di nobilissimi cani) sparite dalle tabaccherie dell’incantato mondo di fuori. Le poche che circolano arrivano appunto dalle carceri, solitamente indirizzate ai bambini.
Tutta la carta è oro. E anche un pacco di sigarette può fare da lavagna se nella cella n. 75 di Boutyrki, in U.R.S.S., si sta tenendo una conferenza sulla bomba atomica. È scienza galeotta, e quando gli scrittori – i poeti, gli scienziati, i letterati, gli avventurieri – finiscono in pri-
gione fanno quello che fanno tutti i detenuti: scrivono. O studiano.
Da scrittori si finisce in prigione con un rischio in più: sentire il proprio cervello andare in pappa, come accadde a Curzio Ma-laparte, o diventare scrittori migliori. Giuseppe Berto, deportato in Texas, da dannunziano qual era diventa rock. Al ritorno in Italia, istigato da Leo Longanesi, scrive
Il cielo è rosso;
è il primo romanzo del neorealismo italiano: negli Usa ha un successo straordinario, in patria viene praticamente ignorato.
Da scrittori si finisce in carcere con l’eventualità di potenziare il fuoco e il genio. Il capolavoro poetico del nostro mondo,
Cantos,
fu
fabbricato
(l’espressione è dovuta a Eliot) da Ezra Pound dentro la gabbia del campo di concentramento americano a Pisa. Prima di consegnarsi ai suoi carcerieri, Pound ebbe il tempo di mettersi in tasca un libro di Confucio e il dizionario degli ideogrammi cinesi. Quando non girava su se stesso a far cerchio sulla sabbia, si aggrappava alle sbarre e cantava Manes. A osservarlo, ammirato (e purtroppo questa notizia è mancata al lavoro bello ed emozionante di Galateria) c’era un altro internato assai particolare: Walter Chiari.
L’uomo che finisce in prigione è un uccello che ingoia la propria gabbia. Le carceri, annota
Daria Galateria, «sono come le barche, non c’è spazio sufficiente per le onde precipitose delle emozioni». E quelli che scrivono «è come se stessero in una cella d’isolamento», secondo le parole del presidente dell’Unione degli scrittori, sezione di Mosca, alle prese con il dattiloscritto di
Divisione cancro
di Aleksandr Solgenitsyn. Questi, ancora senza la sua bella barba da patriarca, finisce sdraiato accanto a una tinozza in una cella illuminata da due lampade; vi entra alle tre di notte, dopo undici ore di procedure: dormono tutti tranne le mosche, e la solitudine è l’argomento che dominerà la veglia di quegli ottanta reclusi stipati in una cella concepita per venticinque, tinozza
compresa.
C’è una notizia bomba in questo libro e un solo piccolo errore, o meglio un lapsus. Nel raccontare la prigionia di Pound, rinchiuso in gabbia al campo di Coltano, all’autrice scappa la parola “Rai”. Ma all’epoca c’era l’Eiar, e dopo ci sarebbe stata la stazione radiofonica della Rsi, ed era appunto da quei microfoni che Pound diffondeva i suoi comunicati confuciani. La notizia bomba è relativa a Leo Longanesi. Scopriamo che il fondatore de
Il Borghese,
ovvero l’uomo che, come Guareschi, può essere definito
«lo scrittore più di destra in modo deciso e inequivocabile», chiese a Palmiro Togliatti la tessera del Partito comunista italiano. La chiese in coppia con Curzio Malaparte, che, dopo essere arrestato dalla Military Police quale “pericoloso fascista”, incontrò Togliatti nella propria villa di Capo Masullo, a Capri. Il povero Longanesi, invece, non ebbe mai modo di portarsi a casa Togliatti; dovette accontentarsi di ricevere un paio di industriali coi calzini corti, pronti a finanziargli un partito, e se ne scappò a gambe levate: «Dovrei fare la grande destra con le mezzecalzette? ». Ecco, sarebbe stato il caso
di sbatterlo in cella.