Adriano Sofri,, la Repubblica 18/6/2012, 18 giugno 2012
L’INFAME SORRISO DEL MOSTRO DI UTOYA
Nemmeno per ammonire Breivik che spiega alla pubblica accusatrice che lei è bionda e attraente e per proteggere la sua razza lui ha dovuto trucidare quelle 77 persone. Il tribunale ha proibito le trasmissioni dei suoi interventi, ma gli permette di commentare testimoni e periti. Ha smesso l’aria di sfida delle prime comparse, sta lì con una compassata untuosità, quando gli psichiatri citano qualcuna delle sue enormità sorride, come per dire: «Eh, ma questa è davvero grossa», e come se a farla così grossa fosse stato un altro.
Da settimane i norvegesi parlano o sentono parlare di schizofrenia paranoide e psicosi. Sul resto non c’è discussione: Breivik rivendica tutto: l’autobomba che ha ucciso 8 persone a Oslo, i 69, per lo più ragazzi e ragazze, trucidati a Utøya. Dicono che un norvegese su quattro conoscesse almeno una delle vittime, e citano i versi di Nordahl Grieg (1902-1943): «Siamo così pochi in questo paese / ogni uomo che cade ci è fratello o amico».
Il processo è stato drammatico finché toccava a superstiti e famigliari. Poi sono rimaste le opposte scuole psichiatriche. Nelle 1500 pagine del suo “Manifesto” Breivik millantava il proprio martirio, e l’ha ripetuto ieri. Mentre ancora mitragliava gli inermi a Utøya chiamò la polizia per avvertire che si sarebbe arreso, e quando la polizia — tardi — arrivò, le si consegnò docilmente: un vigliacco. Ora è lì, i periti citano brani dei più deliranti, e lui, il cavaliere templare, sorride divertito come per uno scherzo riuscito. Giornalisti e pubblico sorridono, o ridono apertamente, ma di colpo si accorgono che lui sorride o ride esattamente come loro, esattamente delle stesse baggianate. C’è qualcosa di insopportabile in questo. Ma attenzione: non è andata sempre così.
L’11 maggio l’aula ospitava il ventenne Hayder Mustafa Qasim, appena arrivato dall’Iraq. Quel
giorno i periti riferivano sull’autopsia di suo fratello, Qarar. Il giovane assistette in silenzio, si guardò attorno, non riuscì a spiegarsi la calma di persone dalla vita spezzata. L’udienza della mattina era avanzata quando Hayder Mustafa Qasim si alzò e lanciò una scarpa verso Breivik, gridando: «Hai ucciso mio fratello! All’inferno! Vai all’inferno!». La scarpa lo mancò. Ma Hayder incrociò, fra le lacrime, lo sguardo di Breivik: «E ho visto che il mio messaggio gli era arrivato». Mentre Hayder usciva dall’aula, quel pubblico così controllato di parenti e cittadini si mise a battere le mani e gridare «Bravo!» e dare sfogo al pianto. Di tutti i possibili risultati dell’incontro fra la Norvegia “tipica” (“
typisk”
— è una tipica espressione norvegese) e lo straniero ultimo arrivato, questo era il più imprevedibile e rivelatore. Gli psicologi finalmente ebbero qualcosa da dire, e dissero, pressappoco, che quando ci vuole ci vuole. Che le rose e le canzoni sono una reazione mirabile, ma non bastano, e che c’è un punto di rottura. Non voglio tradire l’episodio riducendolo a una metafora, ma in quel momento la Norvegia (e l’Iraq) dissero molto di sé a qualunque Cavaliere Templare.
Ma la corte ha ragione a volere un rispetto meticoloso dei diritti dell’imputato. È la traduzione giudiziaria della promessa di Jens Stoltenberg, il primo ministro, all’indomani della strage: «Reagiremo al male con più democrazia e più umanità ». L’avvocato difenso-
re, Geir Lippestad, 48 anni, è un padre di otto figli, laburista impegnato — del partito cui Breivik imputa l’islamizzazione e della cui gioventù ha fatto strage — e ha esitato prima di accettarne l’incarico. Ha chiesto di ascoltare i capi dell’estrema destra. Così la corte si è sentita spiegare che nel 2200 non ci sarà più una sola donna bionda in Norvegia, e altre profezie. La difesa intendeva dimostrare che Breivik non è solo a pensare i suoi deliri. Ma non sono alla sbarra i deliri. Le opinioni deliranti hanno milioni di titolari. Le azioni sono personali, e, per così dire, le opinioni no. Si fermano sulla soglia — sia pure con qualche eccezione imposta dalla storia. La psichiatria vuol maneggiare il trapasso dalle opinioni alle azioni, e tende a stabilire un legame di causa ed effetto fra le due. Il che può portare sia a concludere per la “sanità” («è l’ideologia a guidarlo, Breivik non è che un ideologizzato più conseguente degli altri») sia all’insanità («simili opinioni sono deliranti, quindi le azioni sono irresponsabili»). Così rischia di dare per scontato che Breivik abbia fatto quello che ha fatto per le motivazioni che ha fornito. Come quando si rifece il naso, e ora dice di essere stato aggredito da un musulmano che gli ruppe il setto — una bugia, dicono gli amici di allora.
Il dissidio fra psichiatri ha coinvolto ogni dettaglio biografico e ogni ingrediente delle sue elucubrazioni. Al principio, e alla fine, c’è un dilemma sofistico: è pazzo chi fa una cosa simile; non
è pazzo chi fa una cosa simile. Breivik l’ha preparata per anni. Il paradosso rovescia il gioco delle parti: l’imputato chiede di essere riconosciuto sano di mente, per continuare a pretendersi l’eroe di una crociata; l’accusa chiede di dichiararlo pazzo, il pazzo di casa. Lui protesta che non si prendano sul serio i suoi turbamenti. Non è interessante la sua vita, e non può esserlo diventata grazie alla strage. Anche perché la strage serviva a renderla interessante.
Fuori dal tribunale, l’opinione dei norvegesi è per la colpevolezza: in galera, non in una casa di cura. Hanno ragione, credo: l’equivoco sta nel far coincidere la pazzia con l’irresponsabilità.
Breivik è responsabile. In attesa della sentenza (il verdetto verrà il 24 agosto) si prepara una legge
ad personam
che prevede una cella di prigione adibita a un uso psichiatrico, soluzione salomonica che si adatterebbe a ogni conclusione. Prima delle arringhe finali, si sono risentite in aula voci di famigliari. Un uomo, che ha perso sua moglie nell’esplosione di Oslo, ha detto che lei aveva le unghie colorate di tutti colori diversi. La sua vita è diventata grigia, ma lui non vuole che la Norvegia diventi una società chiusa. E ieri, quando madri e sorelle hanno parlato di nuovo, la gente nell’aula ha pianto e ripetutamente applaudito. Hanno imparato a farlo.
Il campeggio di Utvika — “la baia di fuori” — è la terraferma di fronte a Utøya, “l’isola di fuori”, 600 metri di distanza. Da lì, mentre la polizia non arrivava (un’attenuante: stava avvenendo
l’inimmaginabile), molti andarono a soccorrere i ragazzi. Ci sono lapidi e fiori, lettere infantili, giocattoli, un po’ dovunque. Più in là è fermo il ferry per Utøya, quest’estate i giovani laburisti non ci andranno. Bisogna cambiare qualcosa sull’isola, hanno detto. Far passare ancora un po’ di tempo.