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 2012  giugno 18 Lunedì calendario

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

NEW YORK
— Se i problemi più urgenti dell’eurozona sono quelli indicati dal Fondo monetario internazionale, il vertice di Roma è stato inconcludente. Non ha dato risposte all’appello lanciato da Christine Lagarde, direttrice del Fmi. Nulla di fatto sulla ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole. Niente sull’intervento deciso della Bce nell’acquisto di titoli pubblici italiani e spagnoli. Né sugli “eurobill” con cui finanziare in modo solidale il debito pubblico a breve, che il Fmi appoggia, come anticipato da
Repubblica
il 30 aprile. Nessun passo concreto verso quella unione bancaria che l’istituzione di Washington indica come una necessità.
Vista l’autorevolezza del Fondo, è probabile che questo senso di inadeguatezza sarà condiviso anche da Wall Street, dagli investitori globali sul mercato dei bond, oltre che dalla Casa Bianca. Non aiuta certo il contrasto sempre più visibile tra la linea di Mario Draghi alla testa della Bce, e quella del suo “azionista tedesco” che è la Bundesbank. Non giova neppure la sensazione — avallata dagli organi di vigilanza, ripresa dal
Wall Street Journal —
che diverse banche europee stiano ricominciando a “ritoccare” i propri bilanci
per farli apparire più solidi di
quanto sono.
Spezzando quella che era stata una lunga intesa tra “le due donne più potenti dell’economia mondiale”, la Lagarde ha lanciato una serie di moniti precisi, tutti in contrasto con la linea di Angela Merkel. «Vediamo con chiarezza — aveva detto la numero uno del Fmi poche ore prima del summit di Roma — i segnali di una tensione aggiuntiva, di uno stress acuto, sia sul fronte delle banche sia sui debiti sovrani dell’eurozona». Due emergenze strettamente legate fra loro, come ha dimostrato il flop del piano di aiuti alle banche spagnole: se passa attraverso le casse del Tesoro di Madrid, ne farà esplodere il debito fragilizzando vieppiù proprio quel Paese che si vorrebbe aiutare.
D’altra parte gli istituti bancari di tutti i Paesi ad alto debito sono destabilizzati anche dal peso considerevole dei bond pubblici che tengono nelle proprie casse e continuano ad acquistare con regolarità. È il «circolo vizioso che occorre
spezzare», ha sottolineato la Lagarde. La francese, che non è sospetta di manovrare in aiuto a François Hollande (fu nominata da Nicolas Sarkozy), ha detto chiaramente «ciò che pensa il Fondo monetario: occorre un rapido e determinato balzo verso il completamento dell’unione monetaria,
altrimenti la sopravvivenza dell’euro è a rischio». Ha ribadito che gli aiuti alle banche — oggi quelle spagnole, domani chissà — «devono avvenire preferibilmente senza passare attraverso l’intermediazione dello Stato sovrano» proprio per evitare la trappola che è scattata sulla Spagna.
Lagarde ha evitato di citare il
singolo caso spagnolo proprio per indicare che il principio deve valere
erga omnes.
Il sistema bancario rimane infatti il grande malato dell’eurozona. Diversi istituti di credito, secondo le indagini degli organi di vigilanza citati sul
Wall Street Journal,
starebbero modificando il modo in cui valutano il rischio dei titoli che detengono in portafoglio. È una scorciatoia per tentare di apparire in regola con i nuovi parametri di capitalizzazione. Ma trucchi del genere hanno breve durata, e un’efficacia decrescente. Già nel biennio precedente diversi “stress test” che dovevano simulare la tenuta degli istituti di credito in caso di nuovi shock (recessioni), vennero manipolati. Furono giudicate con generosità quelle stesse banche spagnole che oggi sono allo stremo.
La Merkel ieri ha dato voce ai tanti sospetti della Germania: «Se io verso dei capitali nelle banche spagnole, essendo il cancelliere tedesco non ho il potere di dire a quelle banche ciò che devono fare ». È la verità, ed è la ragione per
cui il Fondo insiste: occorre muoversi subito verso l’unione bancaria. Ma non è questo il risultato uscito dal summit romano. Sul quale pesa anche il dissidio sempre più netto tra la Bce e la Bundesbank. Draghi ha avviato una revisione dei criteri coi quali valuta i titoli che accetta in pegno dalle banche in difficoltà, come garanzia dei prestiti che eroga. Per non essere più «schiavo dei signori del rating», Draghi vuole accettare anche titoli di minore affidabilità. La Bundesbank gli ha mandato un altolà: in questo modo si trasferisce una montagna di «carta scadente » nelle casse della stessa Bce, spostando il rischio nel cuore dell’autorità monetaria.
La controversia illustra ancora una volta la fragilità dell’architettura istituzionale dell’eurozona. Sul
Financial Timeslo
storico Liaquat Ahamed ricorda che furono incertezze di questo tipo a rendere la Federal Reserve impotente di fronte alla Grande Depressione degli anni Trenta. Almeno quella lezione, l’America sembra averla appresa visto che nel 2008, dopo il crac Lehman, mise in azione un piano da 600 miliardi per le sue banche. Nulla di simile è all’orizzonte in Europa. Tantomeno quella «transizione dalle politiche di austerity alla crescita», che pure figura tra i richiami del Fondo monetario.