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 2012  giugno 22 Venerdì calendario

PER CONVINCERE I TURISTI ORIENTALI CI AFFIDIAMO ALLA SIGNORA AUTILIA

Alla conquista della Cina e dei suoi 130 milioni di turisti abbiamo mandato, mistero misterioso, la signora Autilia Zeccato, segretario comunale di Campagnano Romano. Auguri. Non c’è dunque da meravigliarsi se nel decreto Sviluppa Italia, in 188 pagine, non si trova un cenno alla Cultura e al Turismo, spacciati ogni giorno, retoricamente, come «il nostro tesoro». Una svista suicida.
Sono anni che tutti gli studi dicono che ogni euro speso bene in cultura rende più di ogni altro investimento. La Francia impegna nel nuovo Louvre di Lens 200 milioni certa di guadagnarci sette volte tanto. La Spagna ha moltiplicato in 7 anni per 18 volte, dice un rapporto Ue, i soldi messi nel Guggenheim di Bilbao. Jeremy Rifkin afferma che «l’espressione più potente e visibile della nuova economia dell’esperienza è il turismo globale» divenuto «rapidamente una delle più importanti industrie del mondo».
Lo stesso Sole 24 Ore, prima ancora di lanciare il suo «Manifesto per la cultura», stigmatizzava tre anni fa come si puntasse troppo su «progetti (ponte sullo Stretto) che presentano moltiplicatori di reddito inferiori a quelli evidenziati dai progetti culturali: due volte contro 4-5 volte». E faceva vari esempi. Uno: «La mostra nazionale Gauguin-Van Gogh organizzata a Santa Giulia (Brescia). A fronte di 3 milioni di spese, con 515 mila visitatori ha prodotto una spesa pro capite media di 83 euro per un indotto complessivo di 75 milioni». E allora, davanti a questi dati, ti domandi: possibile che ancora una volta ogni progetto di rilancio dell’economia punti su tutto meno che sulla cultura e sul turismo?
Capiamoci: è una cecità datata. E spiega perché l’Italia, che nel 1970 era la prima al mondo tra le destinazioni del turismo internazionale, sia scivolata al quinto posto e perché nella graduatoria della competitività turistica del World economic forum (non basta avere le Dolomiti o l’«Ultima cena» di Leonardo ma occorre offrire trasporti, alberghi e ristoranti buoni e non troppo cari, una rete web decente, sicurezza…) occupi appena la 27ª posizione.
«Dobbiamo portare il turismo al 20% del Pil» proclamava un anno fa Silvio Berlusconi. Rilancia ora il ministro Piero Gnudi: «Il turismo potrebbe dare al Pil un contributo del 18%». Aggiungendo che il settore «nei prossimi 10 anni ha la possibilità di creare 1,6 milioni di nuovi posti di lavoro». Ma i fatti? L’ultimo rapporto del World travel & tourism council (Wttc) afferma che il turismo in senso stretto rappresenta in Italia appena il 3,3% del Prodotto interno lordo. Umiliante.
Nel mondo ci sono 93 economie nelle quali l’industria turistica ha un peso relativo maggiore al nostro. Paesi come Spagna, Grecia, Egitto o Portogallo meno forti sotto il profilo industriale. Ma anche Paesi manifatturieri come la Francia, che ci supera con il suo 3,7%. Anche con l’indotto, il peso del turismo si solleva faticosamente da noi fino all’8,6% del Pil, ben al di sotto non solo dei sogni berlusconiani e gnudiani ma di tanti altri Paesi.
Se per numero di ospiti stranieri, come dicevamo, siamo oggi la quinta destinazione mondiale dietro Francia, Spagna, Usa e Cina, sugli introiti complessivi generati da questi turisti esteri siamo già, secondo il Wttc, in sesta posizione, superati perfino dalla Germania e con il Regno Unito che ci incalza. E per fatturato complessivo del settore (italiani e stranieri e tutto l’indotto insieme) siamo addirittura settimi.
Di più. Le stime dicono che nel 2012 i ricavi scenderanno dello 0,9% e che il numero dei turisti stranieri calerà sotto i 43,6 milioni, bruciando parte della ripresina del 2011. Dei 181 Paesi censiti dal Wttc, appena 14 cresceranno meno di noi: siamo al posto 167. Già quest’anno il fatturato del turismo estero da noi si attesterà intorno a 30,3 miliardi di euro, cioè 4,3 al di sotto dei livelli 2006. Con un impatto anche sull’occupazione, già più modesta che altrove.
In Egitto il turismo dà lavoro a 3 milioni 79 mila persone, in Italia, indotto compreso, a 2 milioni 231 mila, cifra che vale appena il 19° posto in graduatoria. Direte: è logico, sul Nilo quale altro mestiere vuoi che facciano? Andiamo allora vedere tre paesi con un manifatturiero forte: in Francia il settore occupa 2 milioni 793 mila addetti, nel Regno Unito 2 milioni 308 mila, in Spagna (un quarto di abitanti in meno) 2 milioni e 304 mila. Sono numeri inequivocabili. E dicono che l’immenso patrimonio paesaggistico, monumentale, artistico ed enogastronomico che abbiamo è sfruttato malissimo. E anche qui l’ottimismo sventolato via via da ogni governo non è condiviso affatto dal Wttc: nella classifica della crescita turistica prevista da qui al 2022 occupiamo la casella numero 173. Su 181.
C’è chi dirà: i numeri vanno presi con le pinze, tanto più le previsioni. Giusto. Ma cosa stiamo facendo da anni noi, il paese che si vanta di avere più siti Unesco di tutti nel pianeta, per invertire il nostro malinconico smottamento turistico nel bel mezzo del boom di questa nuova «industria mondiale» di cui parla Rifkin? Il governo di Pechino stima che nel 2015, cioè fra tre anni, i cinesi così ricchi da andare in vacanza all’estero saranno tra i 100 e i 130 milioni e spenderanno in giro per il mondo 110 miliardi di euro. Mai visti tanti turisti, mai visti tanti soldi.
Noi, il Paese di Marco Polo, l’unico occidentale conosciuto anche dai contadini delle più remote contrade dell’«Impero di mezzo», avevamo una posizione di vantaggio: «Eravate il punto di partenza ideale per un tour europeo», spiegò l’anno scorso a Giampaolo Visetti di Repubblica il vicecapo dell’Ufficio nazionale del turismo cinese, Zhu Shanzhong, «poi ci avete un pochino trascurati».
Come? Costruendo un sito web stupefacente con il copia-incolla del sito cinese dell’Emilia-Romagna, troppo tardi cambiato, col risultato che pareva producessimo soltanto parmigiano, prosciutto e macchine Ferrari e che la capitale fosse Bologna. Ignorando di raccomandare ad alberghi e ristoranti di accogliere nel modo giusto i nuovi ospiti (esempio: bastoncini al posto delle forchette) e spalancando alla Francia e alla Germania, molto più rapide nell’adeguarsi, la possibilità di soffiarci il ruolo di destinazione privilegiata. Per non dire, appunto, della scelta di mandare a Pechino alla guida dell’Enit, con la missione di spingere milioni di cinesi a venire in Italia, la signora Zeccato. Che stando al suo stesso curriculum non solo era del tutto digiuna del cinese ma fino a tre anni fa aveva fatto solo la segretaria comunale a Zeme, Velezzo Lomellina, Lardirago, Bascapè, Affile, Labico e Campagnano Romano.
Un caso isolato? Magari… A conquistare i turisti del Brasile, cioè il più grande Paese cattolico del mondo dove il boom potrebbe consentire finalmente a milioni di fedeli di venire a Roma, abbiamo mandato l’ingegnere catanese Salvatore Costanzo. Il quale, per ragioni in cui non vogliamo entrare, non ha ottenuto a lungo il visto da Brasilia e ha cercato di conquistare i brasiliani standosene a Buenos Aires. Nulla di personale, ma come diavolo vengono scelti i dirigenti di punta in certi luoghi strategici?
Decidiamoci: o l’Enit è un carrozzone ormai irriformabile e allora va chiuso oppure può servire e allora va rovesciato come un calzino a partire dalla decisione di far rientrare domani mattina (non fra un mese: domani mattina) chi è stato improvvidamente premiato con incarichi spropositati. Bene: nel decreto Sviluppa Italia l’unico accenno al turismo è la disposizione che la struttura estera dell’Enit sarà integrata con le ambasciate e i consolati. Fine. Anzi, non è stata neppure risolta la contraddizione di affidare la «mission impossibile» del risanamento dell’ente al direttore della Luiss Pier Luigi Celli e allo stesso tempo di sopprimere il Dipartimento del turismo (accorpato a quello degli Affari regionali) tenendo in vita invece una fantomatica «struttura di missione per il rilancio dell’immagine dell’Italia» creata al tempo del governo Berlusconi e che costa un paio di milioncini l’anno.
Quanto ai beni culturali, che dell’industria turistica sono la benzina, inutile cercare nel testo parole come cultura, arte, monumenti, archeologia: non ci sono. La tesi che «con l’arte non si mangia» attribuita a Giulio Tremonti («Se non l’ha detta, certo l’ha pensata» rideva l’allora ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan) pare essere tra i pensieri, purtroppo, anche del governo Monti.
Un atteggiamento inspiegabile. Su cosa dovrebbe puntare, ad esempio, il Sud che le industrie non ce le ha neppure in crisi? Ovvio: sulla bellezza, i paesaggi, i tesori artistici e archeologici. Spiega Massimo Deandreis, direttore di Studi e Ricerche del Mezzogiorno, che il turismo culturale rappresenta ormai il 35% del Pil turistico appena sotto il 38% del turismo marino, al 16% del montano, all’8% del lacuale, al 4% del termale e ancora al 4% del collinare. Eppure «il Pil turistico (in senso stretto) meridionale raggiunge il 3,5% del Pil complessivo, contro il 3,8% dell’Italia». Uno spreco pazzesco.
E avvilisce prendere atto che, nonostante le buone volontà personali, non c’è alcun impegno reale di cambiare strada. L’Italia oggi investe in cultura un quinto della Francia: lo 0,19% del suo bilancio. Un quarto rispetto allo 0,80% del 1955. Per recuperare il terreno perduto servirebbe un impegno pubblico convinto e accanito. E non parliamo di soldi: parliamo di idee. E torniamo a un tema che noi del Corriere abbiamo già sollevato: dobbiamo mettere insieme in un grande e potente ministero del Patrimonio, affidato ai più bravi, quelle che dovrebbero essere le nostre risorse maggiori: beni culturali, ambiente e turismo. Ma accetteranno i nostri politici, per il bene del Paese, di rinunciare a tre strapuntini ministeriali così comodi da distribuire?
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella