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 2012  giugno 22 Venerdì calendario

IL CONSIGLIERE E MANCINO: «SI SENTE SOTTO PRESSIONE. TELEFONA TUTTI I GIORNI» —

«Io vorrei dire che il presidente Mancino telefona tutti i santi giorni su questa... perché lui si sente costantemente sotto pressione», spiega Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica, al procuratore di Palermo Francesco Messineo e al sostituto Nino Di Matteo. Messineo lo interrompe: «Se non è interessante ai fini del nostro verbale...». D’Ambrosio insiste: «No, cioè, voglio dire, è anche dura quando non c’è...», ma il procuratore non pare interessato: «Sì, lo capisco, ma parliamo per ora di ciò che...». D’Ambrosio si blocca: «Sì, sì, no, io...». Finché interviene Di Matteo: «Io infatti le chiedo alcuni chiarimenti su alcune cose che dice lei, su fatti... ».
È il pomeriggio del 16 maggio scorso, nel palazzo di giustizia di Palermo, quando il magistrato in servizio al Quirinale scopre di essere stato intercettato mentre parlava al telefono con Nicola Mancino. Per la seconda volta i pm l’hanno convocato come testimone nell’indagine sulla cosiddetta «trattativa» tra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi, fra il 1992 e il 1993. Anche Mancino era un testimone, in qualità di ministro dell’Interno all’epoca dei fatti, ma le sue deposizioni avevano convinto gli inquirenti a mettergli il telefono sotto controllo. E da quelle registrazioni era saltata fuori, più volte, la voce di D’Ambrosio.
Tra il ’92 e il ’93 l’attuale consigliere di Napolitano lavorava al ministero della Giustizia; all’ufficio Affari penali diretto da Giovanni Falcone e poi da Liliana Ferraro, e in seguito come vicecapo di gabinetto del Guardasigilli Giovanni Conso. I pm di Palermo l’avevano già sentito a marzo, ma dopo aver ascoltato le telefonate con Mancino hanno deciso di richiamarlo. Non per contestargli le considerazioni sulla conduzione delle indagini, o i reiterati tentativi di far intervenire il super procuratore antimafia Grasso. No, per Messineo e Di Matteo il tema è un altro: la nomina a vicedirettore generale della carceri di Francesco Di Maggio, morto nel ’96 e oggi considerato un anello della presunta trattativa; se fosse ancora vivo sarebbe indagato insieme ai carabinieri, ai politici e ai mafiosi accusati di «violenza o minaccia a un corpo dello Stato».
Nel primo interrogatorio D’Ambrosio aveva detto di non conoscere i motivi per cui Di Maggio approdò al vertice dell’amministrazione penitenziaria, quasi un mistero per lui. A Mancino invece, pur confermando che fu «un provvedimento sui generis», confidò: «Ricordo chiaramente il decreto scritto nella stanza della Ferraro». Ecco il motivo della nuova chiamata dei pm: perché non l’aveva detto anche a loro? Che cosa ricorda di quel decreto di nomina?
«Non l’ho visto, di questo proprio ne sono sicuro», esordisce D’Ambrosio, spiegando per circa un’ora che lui quella frase a Mancino l’ha detta, certo, ma era la sintesi sbagliata di un altro concetto: «La Ferraro e la Pomodoro (capo di gabinetto di Conso, ndr) probabilmente saranno state loro che hanno organizzato qualche cosa, vista la loro vicinanza con Di Maggio». Della «materiale scrittura», però lui non ha visto né sentito niente. Ricorda solo «Di Maggio accanto alla segretaria (della Ferraro, ndr) che praticamente dettava alcune cose», ma non la sua nomina: «Può anche essere stata una bozza predisposta, però io il decreto vero e proprio non l’ho visto dove è stato composto». In ogni caso, «credo che tutto questo sia nato tra Pomodoro e Ferraro, cioè Pomodoro-Ferraro-Di Maggio».
Quanto all’atteggiamento di Di Maggio verso il «carcere duro per i mafiosi», di cui pure aveva parlato con Mancino, D’Ambrosio non crede che fosse fautore di un alleggerimento: «Poteva essere, viceversa, se uno entra nell’ottica della trattativa, che lui volesse agevolare i colloqui investigativi dei carabinieri, come per avere confidenze dall’interno del carcere». In particolare dei carabinieri suoi amici, a cominciare dall’ex generale Mori, oggi anche lui inquisito. E compresi i colloqui «fuori dall’autorizzazione», aggiunge D’Ambrosio. Ma si tratta di «una valutazione, una deduzione, non ho nessun elemento». Stessa cosa per i sospetti sulla morte di Nino Gioè, il primo arrestato per la strage di Capaci, suicidatosi in cella nel luglio ’93. Sospetti riferiti a Mancino e ribaditi ai magistrati: «Non mi suona bene, secondo me è il punto cruciale... Non so che indagine avete fatto voi... Questo suicidio così è strano, mi turbò allora e mi turba tuttora. Ma sono valutazioni, considerazioni, non ho nessuna certezza».
Giovanni Bianconi