Rocco Cotroneo, Sette 22/6/2012, 22 giugno 2012
LA RESA DEI CONTI TRA INDIOS E SIGNORI DEL PETROLIO
Per trovare il petrolio sotto la foresta, i gringos quarant’anni fa dovettero arrivare in elicottero, farsi largo con il machete e perforare la terra per tre chilometri. Le azioni della Texaco volarono in Borsa, e l’Ecuador, fino a quel momento un produttore di banane, divenne addirittura membro dell’Opec. Per ritrovare questa melma dall’odore di catrame e la consistenza della nutella, basta oggi un pezzo di legno da spingere nel fango con un po’ di forza. Può farlo persino un bambino, nel pantano dietro casa, tra gli alberi giganti dell’Amazzonia e i rivoli che scendono verso i fiumi. Mezzo metro sotto le scarpe, quel che la compagnia americana buttò in natura, e non volle tenere a distanza dalle comunità indigene che vivevano qui da sempre, riappare come la più evidente delle prove. Nell’Ecuador amazzonico si è consumato uno dei peggiori disastri ambientali della storia dell’umanità. L’hanno chiamata la Chernobyl della selva ed è una tragedia che continua.
Risarcimento e rispetto. Pedro, 12 anni, per andare a scuola cammina in equilibrio sull’oleodotto. Al ritorno no, perché il sole lo fa bollire e ci vorrebbero le scarpe da tennis, che non ha. È un serpentone che spunta ovunque attorno alla città, prima di prendere il cammino verso il mare. Trecento e passa chilometri, sale sulle Ande fino a 4.000 metri e scende a picco verso il Pacifico, dove l’oro nero dell’Ecuador parte per i nostri distributori di benzina. Le scritte in vernice sul tubone ricordano la battaglia in corso. Risarcimento, rispetto e giustizia, Texaco a teschio e tibie. Pedro ha perso una sorellina, un giorno ha cominciato a vomitare e se n’è andata prima che i suoi potessero portarla in un ospedale. Tra i 30.000 abitanti di questa regione che sono in lotta contro la compagnia americana lutti e malattie non si contano.
Ma quanto costa davvero ripulire questo pezzo di Amazzonia, tentare di rimediare ai disastri compiuti in trent’anni? Qualche mese fa, dopo una interminabile disputa giudiziaria, il tribunale di Lago Agrio ha condannato la Texaco, oggi assorbita dalla Chevron, a pagare un risarcimento di 18 miliardi di dollari. Si tratta della cifra più alta mai stipulata in casi ambientali. E unica è anche la vicenda, perché mai una popolazione intera era arrivata a far condannare una multinazionale di queste dimensioni: il fatturato annuo della Chevron è quattro volte il Pil dell’Ecuador. Al finale manca ancora il giudizio della Cassazione, e trovare un modo per far pagare la compagnia, che si rifiuta di farlo. L’ufficio di Pablo Fajardo, l’avvocato del Fronte di Difesa amazzonico, parte civile nel caso, è in una casetta alla periferia di Lago Agrio. Fajardo è un personaggio noto nell’ambientalismo mondiale, indio della tribù dei Cofan e autodidatta fino alla laurea in legge: il regista americano Joe Berlinger ne ha fatto il protagonista di un documentario, Crude, che ha vinto vari premi. Con un lungo lavoro di raccolta di prove, riempiendo decine di scaffali del suo ufficio, Fajardo ha dimostrato che per una quindicina di anni la Texaco ha estratto petrolio rilasciando in natura le acque di scarto, invece di smaltirle in profondità come si dovrebbe fare. Per anni, senza saperne nulla, le comunità indigene si sono bagnate e hanno bevuto quelle acque sporche scivolate nei fiumi. La moltiplicazione dei casi di tumore, malattie delle pelle o dell’apparato digerente è stata dimostrata da perizie indipendenti. In un’area grande quanto una media regione italiana, i pozzi perforati sono 300, e a fianco a ognuno sono state scavate varie “piscine” per gli scarti.
La Chevron confuta i dati, o quando proprio non può sostiene che quella era la tecnologia in uso all’epoca, e che comunque il tutto avveniva in accordo con il governo dell’Ecuador, il partner nelle operazioni. Vero, peraltro. Un perito aveva fissato in 27 miliardi di dollari l’ammontare del risarcimento, poi il giudice ha deciso per 18 miliardi. È comunque una cifra enorme, mai vista in una class action di una popolazione contro una compagnia. Da un mese, l’avvocato degli indios ha dovuto cedere alle pressioni di chi si preoccupa per la sua incolumità, e ha messo un guardiano e una telecamera al cancello di casa. «Almeno per proteggere i documenti», dicono qui. La battaglia con la Chevron è durissima e ha coinvolto studi legali di nome anche negli Stati Uniti, dove c’è persino chi ha investito sul buon esito della disputa. Le ultime dicono che gli avvocati degli afectados, come si autodefiniscono le vittime dell’inquinamento, davanti al rifiuto della Chevron di pagare, cercheranno di rivalersi su beni della compagnia in Paesi terzi. Come bloccare una petroliera a Panama, per esempio.
Celebrità conquistate alla causa. Il governo dell’Ecuador, dopo l’appoggio iniziale, oggi preferisce la neutralità, dicendo che si tratta di una vicenda giudiziaria. Rafael Correa, il presidente, quando visitò le pozze parlò di «crimine contro l’umanità». Ma con gli Stati Uniti non ci vuole litigare, impegnato nelle discussioni per un trattato di libero commercio. Il petrolio in Ecuador finirà tra una ventina d’anni, ora il Paese andino vuole iniziare a sfruttare le miniere di rame, di cui è ricchissimo.
Donald Moncayo, factotum del “Frente”, ha accompagnato Sette a visitare una mezza dozzina di queste ex pozze di smaltimento. Lo aveva già fatto con Brad Pitt, Angelina Jolie e Trudie Styler, la moglie di Sting, tutte celebrità conquistate alla causa degli indios ecuadoriani. Con una certa autoironia, Donald chiama il percorso “toxic tour”. Ci mostra laghetti dove il petrolio ancora galleggia dopo trent’anni, e ci cammina sopra per mostrarne la consistenza, o altri dove basta scavare sotto il fogliame per vederlo riapparire (sono quelli che la Texaco sostiene di aver bonificato).
Tutte queste pozze hanno comunque un rivolo che scorre verso un fiume, dove per anni si sono bagnate ignare le popolazioni indigene, o continuano a farlo quelle poche che sono rimaste, non travolte dalla cosiddetta civiltà. La Chevron-Texaco se n’è andata da tempo, oggi tutto il petrolio della regione è gestito dalla locale Petroecuador. Anch’essa è stata responsabile di disastri, «e a loro ci penseremo dopo», dicono al Frente. Visitiamo anche il luogo dove tutto cominciò, il pozzo numero uno, a metà strada tra la città e l’aeroporto. A dieci metri dal pantano vive una famiglia. Sanno tutto, ma non saprebbero dove andare, è la loro casa e la loro terra. Rafael, moglie e figli tirano avanti grazie a tre mucche e una decina di galline. I loro animali bevono quelle acque e mangiano l’erba ricresciuta sopra il catrame; loro, e qualcun altro, mangeranno poi quelle carni.
A un’ora di jeep dalla città, lungo un percorso tutto deforestato, c’è il confine con la Colombia, segnato dal rio San Miguel. Qui al dramma ambientale se ne aggiunge uno altrettanto grave, quello dei rifugiati dal Paese vicino, in fuga dalla guerriglia delle Farc e dai paramilitari. È uno degli avamposti più importanti dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Andrea Cianferoni, un ragazzone fiorentino che vive qui da sette anni, ci accompagna poi in canoa verso le comunità alle quali la ong Oxfam Italia, per cui lavora, sta fornendo un aiuto decisivo. Le famiglie imparano a piantare cacao in maniera più produttiva, evitando di far crescere troppo la pianta e intervenendo con innesti di specie più resistenti. È un mondo di sussistenza e pericoli, per poco la nostra canoa non incrocia un gruppo di guerriglieri armati, ma al quale l’attenzione internazionale sul disastro ambientale sta fornendo almeno una chance per vivere meglio.
Oggi i campesinos riescono a produrre buone quantità di cacao, e poi le portano a una cooperativa vicina, sempre messa in piedi da Oxfam, per vendere i chicchi a un prezzo equo. Bolivar Lopez, padre di nove figli nati a raffica da quando è scappato qui dalla Colombia, ci mostra il suo piccolo pezzo di terra. I frutti del cacao adesso sono grossi e buoni per essere venduti e i bambini appaiono ben nutriti. La capanna è modesta ma ordinata, i bambini giocano sulle amache del patio. Bolivar conosce poco della sfida del petrolio, non sa se il suo pezzo di fiume è scampato o meno ai rivoli neri della Texaco. Ha lo sguardo di chi sogna di essere altrove, ma anche la fierezza di aver già conquistato parecchio.
Rocco Cotroneo