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 2012  giugno 22 Venerdì calendario

Liceo classico: chi ha paura di Aristotele? - Chi ha paura di Aristotele? Tutti gli studenti dei licei classici italiani, a quanto pare

Liceo classico: chi ha paura di Aristotele? - Chi ha paura di Aristotele? Tutti gli studenti dei licei classici italiani, a quanto pare. E anche i loro professori. I primi tremavano e facevano scongiuri già solo alla prospettiva, prevedibile, che la versione di greco all’esame di maturità quest’anno fosse di quel grandissimo filosofo. I secondi, i loro docenti, da ieri hanno preso a indignarsi, nelle interviste e nei forum online, protestando che «Aristotele è un autore che si traduce poco». Poco? Come sarebbe a dire? Cosa sarebbe la storia senza le traduzioni di Aristotele? Dai latini agli arabi, dai padri della Chiesa agli umanisti, fino ai filosofi contemporanei, la cultura occidentale (e non solo) è stata tutta un tradurre Aristotele, la storia della filosofia un immenso, infinito commento ai suoi scritti. Non solo senza il sistema aristotelico l’edificio teologico cristiano sarebbe crollato, ma non sarebbe potuto progredire nemmeno, cosa forse ancora più grave, il pensiero scientifico. Non parliamo di quello politico: se l’utopismo platonico, riscoperto in Europa dal Rinascimento, è stato, come ha scritto Eugenio Garin, «l’ideologia dell’eversione europea», alla politica aristotelica si deve la definizione di quella forma di costituzione basata sulla «medietà», lontana dagli estremi e dai massimalismi, alla cui ricerca è andata, e sta andando, la società occidentale. Il «De partibus animalium», da cui è stato tratto il brano per la maturità classica, non è certo una delle opere più grandi di Aristotele. Ma un classico è proprio questo: anche nei suoi scritti minori, riconducibili a insegnamenti e appunti scolastici come il trattato in questione – forse appena un po’ difficile per questo suo elemento di incompiutezza –, si trova un piccolo nucleo di pensiero da riconsiderare alla luce di quello del proprio tempo. In questo caso troviamo una traccia del sotterraneo o carsico pensiero animalista, immanente a molta parte del pensiero antico, di quel rispetto per il vivente non umano, che proprio di recente gli antichisti, in particolare gli antropologi, hanno preso a studiare, dando a loro volta alimento alle teorizzazioni dei moderni animalisti. Da qualunque lato lo si guardi, Aristotele è una stella fissa. E’ una star, anzi una superstar. Chi ha soggezione delle superstar? Forse che, dopo aver comprato il biglietto per un concerto, fatto la fila, aspettato, sudato, si scappa al momento in cui entra il big? Frequentare il liceo classico, imparare l’alfabeto greco, scervellarsi su aoristi, aumenti e verbi irregolari, adattare il pensiero a quella sintassi difficile, ma infallibile, che squadra la mente come un foglio e fa posto al pensiero razionale – a cosa serve, tutto questo sacrificio, se non a leggere Platone e Aristotele? Avere «fatto il classico» non è solo uno status symbol come una marca di telefonino: serve a poter dire, a se stessi anzitutto, di saper leggere di prima mano e interpretare in prima persona i big del nostro pensiero, senza soccombere non tanto alle insidie della grammatica, quanto alle distorsioni, alle attualizzazioni, alle sedimentazioni che i secoli hanno depositato su quelle parole e quei segni incomprensibili a molti. Questo è il senso dell’educazione classica: acquisire la libertà di interpretazione e quindi di pensiero. Perché, come ha scritto Aristotele, la vera felicità è esercitare liberamente il proprio pensiero. Perché, come ha scritto ancora Aristotele, i colti sono superiori agli incolti quanto i vivi ai morti. E perché, come pure ha scritto Aristotele, ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendo. Chiunque abbia fatto questa versione ha imparato qualcosa: anzitutto, a non avere paura di Aristotele.