MARIO CALABRESI, La Stampa 21/6/2012, 21 giugno 2012
Gli zingari mi hanno cambiato la vita - “Q ueste foto le avevo messe insieme 43 anni fa, dovevano essere un libro, era tutto pronto poi la Storia si è messa di mezzo e ho dovuto aspettare una vita per veder realizzato il mio sogno»
Gli zingari mi hanno cambiato la vita - “Q ueste foto le avevo messe insieme 43 anni fa, dovevano essere un libro, era tutto pronto poi la Storia si è messa di mezzo e ho dovuto aspettare una vita per veder realizzato il mio sogno». Josef Koudelka, uno dei più grandi fotografi viventi, sistema personalmente ai muri le 109 stampe secondo la sequenza che si era immaginato nel 1968, prima che la censura seguita alla repressione della Primavera di Praga lo spingesse a lasciare la Cecoslovacchia per cercare asilo politico in Occidente. «Ci ho messo 43 anni per farla, si doveva chiamare Cikàni (zingari in ceco), ti rendi conto quanto tempo è passato?». «Sì – gli rispondo – quando hai iniziato io non ero neppure nato». Allora si toglie gli occhiali, i suoi occhi azzurri mi fissano divertiti, e mi prende in giro: «Da bambino mi arrabbiai moltissimo quando scoprii che il gatto di casa era più vecchio di me, dovresti farlo anche tu». Josef Koudelka, 74 anni, sta montando personalmente Zingari , la mostra della sua vita, alle pareti della Fondazione Forma per la Fotografia di Milano, dove inaugurerà questa sera. Il suo lavoro ha un impatto visivo potente: ti cattura e ti trascina in un viaggio che non ha niente a che fare con il tempo che viviamo, con le sue polemiche, i suoi stereotipi e le sue paure. Per una volta non importa nulla cosa pensiate degli zingari, se siete capaci di chiamarli correttamente, se conoscete la storia delle persecuzioni o il mezzo milioni di loro che venne sterminato nei campi di concentramento nazisti insieme agli ebrei. Sospendete ogni giudizio. Importa che siate capaci di lasciarvi conquistare dalla forza dell’immagine: «Volevo parlare della vita, cosa c’è di più universale? Non volevo fare un documento storico ma parlare dell’esistenza, dai bambini alla morte, questo mi interessava. Ho preso dalla vita delle comunità gitane degli Anni Sessanta di Boemia, Moravia, Slovacchia, Romania e Ungheria, quello che consideravo essenziale, quello che era più importante per me». Non a caso la foto simbolo di questa mostra, quella su cui si ferma a parlare per un tempo lunghissimo, raccontando come abbia speso settimane a cercare la luce esatta nella stampa, è la veglia funebre, in cui si incrociano le generazioni, in cui il neonato è proprio sopra il volto della donna che riposa nel feretro. Guardando queste foto ci si può permettere il lusso di entrare nel mondo dei gitani ( Gitans , si chiamava il libro uscito a Parigi nel 1975 con una selezione del materiale originale) spogliandosi delle diffidenze che li circondano da secoli. Eppure anche il Koudelka bambino scopre gli zingari associandoli alla paura, quando una carovana nomade attraversa il suo minuscolo villaggio natale, Valchov, in Moravia: «Passò l’uomo con il tamburo, quello che dava gli annunci, e avvisò tutti che bisognava chiudersi in casa e nascondere le galline perché stavano arrivando gli zingari». Il piccolo Josef però non li vide passare sui carri, non vide le ragazze correre a rubare nei cortili, il primo incontro fu con la musica, quando da ragazzo appassionato apprendista di cornamusa e violino, scoprì un gruppo di gitani a un festival di suoni popolari: rimase affascinato da quei suoni e da quei volti. Così quando decise che il suo primo lavoro di fotografo di teatro non bastava più e che era tempo di uscire alla luce, scelse proprio di andare a catturare quei volti e quei riti antichi. Un percorso iniziato nel 1962, che portò alla prima piccola mostra (nel foyer del teatro) nel 1967. Fu un avvenimento, perché fino a quel momento il regime comunista impediva di parlare del tema degli zingari, di fotografarli e mostrarli. «Presi il coraggio di esporre le foto perché il clima era cambiato, la primavera di Praga infatti non durò una sola stagione, ma fu una fioritura di tre anni almeno. Fino all’ultimo però avevo paura che venisse cancellata, la mattina dell’inaugurazione venne il censore a visitarla per decidere se dare l’autorizzazione e successe quello che solo un anno prima sarebbe stato impossibile: disse di sì». Un anno dopo sarebbe stato di nuovo impossibile. Un anno dopo, nell’agosto del 1968, le immagini di Koudelka – sotto il nome di «anonimo fotografo praghese» – avrebbero fatto il giro del mondo. La sua testimonianza dell’invasione sovietica di Praga dell’agosto 1968 sarebbe entrata nella storia come il più efficace documento di denuncia: «Io ho sempre fotografato per una mia necessità, per un mio bisogno, non per i giornali. L’ho fatto per me, perché quei fatti mi riguardavano, perché parlavano del mio Paese. Poi quegli scatti sono diventati una prova, hanno raccontato al mondo quello che era successo. L’ho spiegato ai giovani cechi: “È importante che sappiate che siamo stati battuti ma siamo stati coraggiosi, siamo stati occupati ma anche capaci di alzarci in piedi e di comportarci da nazione”». Nel 1969 l’«anonimo fotografo» vince il premio Capa a New York: «Venni fermato per strada da un amico che aveva sentito alla radio, sulle frequenze di Voice of America , che le foto di un praghese avevano avuto un importante riconoscimento. “Non sarai mica tu?”, mi disse e io cominciai ad avere paura e a pensare di scappare». Furono gli zingari ad aiutarlo: grazie ad una borsa di studio per fotografarli in Camargue, finalmente nel 1970 lasciò Praga, dove non sarebbe più tornato per vent’anni. Ma l’uscita dal blocco comunista cambia anche il suo modo di fotografare, abbandona il grandangolo che aveva sposato per riuscire a mettere a fuoco e ad allargare uno spazio stretto come il teatro e che usa in un altro mondo chiuso e con poca luce come quello dei gitani: «Mi costringeva ad andare vicinissimo e ad avere un contatto intimo con le persone». Una caratteristica che Josef Koudelka non ha mai perso: è un uomo senza barriere, che divide la sua birra versandotela nel bicchiere, che ti allunga il piatto perché tu mangi un po’ di prosciutto e melone prima di lui. Non è un caso che uscito dalla realtà chiusa e asfittica del Patto di Varsavia decise di cambiare: «Non mi volevo ripetere e quando ho avuto la possibilità di scoprire il mondo fuori allora ho cambiato anche la tecnica». La cura di ogni particolare, anche tecnico, si vede nel modo in cui allestisce la mostra, convinto che il lavoro del fotografo non si esaurisca con lo scatto, ma vada portato fino in fondo, fino al percorso visivo che deve guidare il visitatore: «Le mostre devono dare un messaggio di contenuto e uno di grafica e non importa da che parte si comincia a guardare, quello che conta è creare dei gruppi omogenei per temi, soggetti, per emozioni». Nella ricerca dell’armonia suprema di un libro o di una mostra, un ruolo fondamentale Koudelka lo attribuisce alle foto in verticale: «Ogni anno i soci storici di Magnum si riuniscono per decidere se accettare nuovi fotografi, io la prima cosa che faccio è guardare se scattano in verticale prima di decidere se possono entrare, perché significa che pensano anche alla composizione e non solo a scattare». A Magnum ci arrivò grazie alla foto dell’invasione e ancora una volta grazie agli zingari. Nel 1969 Josef uscì da Praga per seguire una tournée del teatro, volò a Londra e lì riuscì ad andare all’inaugurazione di una mostra organizzata da Cornell Capa, alla fine della serata si accodò alla comitiva dei fotografi che stavano andando a cena in un esclusivo ristorante della capitale inglese. E’ l’ultimo ad entrare, ma viene fermato sulla porta perché non ha la cravatta. Gliene procurano una, ma non basta, all’uomo in divisa non piace come è vestito e lo lascia fuori. «Allora uno dei fotografi si alzò da tavola e chiese spiegazioni, poi squadrò il cameriere all’ingresso e disse: “lui è vestito meglio di te che sembri un clown, ma se lui non entra allora io me ne vado e ce ne andiamo tutti”. Si alzarono da tavola per solidarietà con me e finimmo a mangiare in una trattoria greca». Quell’uomo si chiamava Henri Cartier-Bresson. «Mi ritrovai seduto di fronte a lui, ma sapevo poche parole di inglese, gli spiegarono che mi interessavo agli zingari e forse pensò che ero un antropologo ma mi disse di andare a trovarlo se fossi passato da Parigi. Mi presentai a casa sua un anno dopo, con tutte le mie foto. Avevo un po’ di paura a mostrargliele perché sapevo che odiava il grandangolo, invece fu un successo e mi chiese di regalargliene due, quella dell’uomo in manette e la veglia funebre, le appese in casa sua. Avevo passato l’esame».