Robert F. Worth, The New York Times Magazine, Internazionale 28/6/2012, 28 giugno 2012
GIUSTIZIA E VENDETTA IN LIBIA
Dopo la caduta di Gheddai, la Libia non ha più un governo né un esercito. La sicurezza è affidata a decine di milizie armate, i cui comandanti decidono della vita o della morte dei prigionieri–
Una notte di settembre del 2011 il prigioniero Naji Najjar è stato portato, bendato e ammanettato, in una base militare abbandonata alla periferia di Tripoli. Alcuni ragazzi in tuta mimetica l’hanno fatto entrare a spintoni in una stanza buia e l’hanno costretto a inginocchiarsi.
Alle sue spalle il comandante dei miliziani, stringendo in mano un tubo di gomma dura, gli ha detto: “Cosa vuoi?”.
“In che senso?”, ha risposto Naji.
“Cosa vuoi?”, ha ripetuto il comandante.
Poi, dopo una pausa: “Non ricordi?”.
Naji ricordava molto bene. Fino a poche settimane prima era uno dei secondini più temuti in una delle prigioni di Muammar Gheddafi. Poi Tripoli è caduta e gli stessi prigionieri su cui aveva infierito l’hanno rintracciato a casa di sua sorella e trascinato nella loro base. Poi hanno imitato i suoi rituali sadici. Un tempo era lui che ogni giorno salutava i prigionieri ripetendo “cosa vuoi?”: voleva che lo implorassero di usare il tubo di gomma per evitare un pestaggio ancora più violento. Il comandante dei miliziani, Jalal Ragai, era una delle sue vittime preferite.
“Cosa vuoi?”, ha chiesto Jalal per l’ultima volta.
“Il tubo!”, ha gridato Naji. E la sua vittima di un tempo gli ha calato il tubo di gomma sulla schiena.
È lo stesso Naji a raccontarmi questa storia all’inizio di aprile del 2012. È ancora prigioniero dei miliziani, in uno stanzone con un’unica finestra chiusa da sbarre e con dei materassi impilati sul pavimento. Vive qui con altri undici uomini che hanno ucciso e torturato per conto di Gheddafi. Su un tavolino al piano di sopra ci sono ancora il vecchio tubo di gomma e il falga, il bastone di legno che Naji usava per sollevare le gambe dei prigionieri in modo da poterli picchiare sotto la pianta dei piedi. Questi strumenti sono stati usati nei primi mesi in cui Naji era prigioniero, quando le sue vittime e i loro familiari venivano alla base per vendicarsi. Ma ora sono poco più che pezzi da museo. Alla ine i miliziani si sono convinti che Naji era più un bufone che una carogna, e hanno deciso di farlo lavorare come cuoco. Così ora siede in poltrona in una stanza con altri giovani che chiacchierano e fumano. A un certo punto arriva il vicecomandante della brigata. Entra nella stanza e dà una pacca amichevole sul palmo della mano di Naji: “Ehi, c’è una lettera per te”. Poi la apre e comincia a leggerla. “È di tuo fratello”, dice con un sorriso ironico.
“C’è scritto: ‘Naji è trattenuto da un’entità illegale, subisce torture ogni giorno, sofre la fame ed è costretto a irmare dichiarazioni false’. Oh, guarda! La lettera è stata mandata in copia all’esercito e all’alto comitato di sicurezza”. Quest’ultimo particolare suscita le risate dei presenti. Perfino Naji sembra trovare la cosa divertente. “Ai familiari diciamo sempre la stessa cosa”, aggiunge uno degli uomini. “Non esiste nessuna entità legale a cui consegnare i prigionieri”.
Dopo la caduta del regime, la Libia non ha più un esercito né un governo. Sulla carta esistono, ma in realtà il paese non si è ancora ripreso dal lungo incubo della dittatura di Gheddafi. L’estrazione del petrolio è ricominciata ma non ci sono parlamentari, governatori delle province e sindacati. La polizia è praticamente inesistente. A Tripoli i semafori funzionano ma sono ignorati da tutti. Gli abitanti della città abbandonano i sacchi di spazzatura sulle rovine di Bab al Aziziya, l’ex residenza di Gheddafi, dove si sono creati dei cumuli di riiuti che emanano un tanfo insopportabile. La confusione regna perfino su princìpi basilari come il concetto di proprietà.
A partire dal 1978 Gheddafi aveva nazionalizzato gran parte delle proprietà private e ora i libici tornati in patria da un lungo esilio rivendicano gli appartamenti, le ville e le fabbriche che un tempo appartenevano ai loro nonni. Ho conosciuto persone che impugnavano documenti sbiaditi scritti in turco e in italiano, minacciando di prendere le armi se non avessero avuto indietro le terre di famiglia.
Quello che non manca, invece, sono le milizie. Sono più di una sessantina e sono composte dai ribelli che quindici mesi fa, quando è scoppiata la rivolta, avevano un addestramento militare scarso o inesistente. I combattenti preferiscono parlare di katiba, brigate, e si deiniscono thuwar, rivoluzionari.
Ogni brigata controlla la sua parte di territorio, anche se l’unica legittimità che può vantare è quella “rivoluzionaria”.
Nelle loro caserme – di solito scuole, commissariati o vecchi uici dei servizi di sicurezza – è in corso un grande esperimento di inversione dei ruoli: le guardie sono diventate prigionieri e viceversa. In assenza di regole, ogni katiba fa quello che vuole dei suoi prigionieri, che possono essere sia criminali comuni sia personalità di spicco come Saif al Islam Gheddai, il iglio dell’ex dittatore. Alcuni miliziani torturano i detenuti, proprio come succedeva durante il regime, altri sono più clementi. Quasi tutti hanno oferto alle vittime la possibilità di guardare in faccia i loro aguzzini, di mettere alla prova il proprio istinto, di soppesare il desiderio di vendetta rispetto alla volontà di rendere la Libia qualcosa di diverso dal parco giochi di un pazzo.
Il cinico e l’idealista La prima cosa che si vede avvicinandosi alla base dove si trova Jalal, a Tagiura, vicino a Tripoli, è un autobus crivellato dai proiettili.
I ribelli l’hanno usato come scudo durante le prime proteste a Tripoli, all’inizio del 2011. Dall’altra parte di un campo incolto sorge un centro di addestramento militare.
Al secondo piano c’è un lungo corridoio.
Alle pareti sono appesi i ritratti dei prigionieri della base militare di Yarmuk, dove ha avuto luogo un famigerato massacro. Il 23 agosto 2011 gli agenti di guardia hanno lanciato bombe a mano e sparato raiche di mitra dentro un piccolo hangar pieno di prigionieri.
Ne hanno uccisi un centinaio. I cadaveri sono stati ammassati e bruciati.
Chi era ancora vivo è stato ucciso a sangue freddo.
Molti componenti della brigata comandata da Jalal sono ex detenuti di Yarmuk o parenti dei prigionieri morti. Tra i ritratti alle pareti ce n’è uno che appare due volte.
È un uomo dal volto giovanile e sensibile, incorniciato da un paio di occhiali senza montatura e da una chioma grigio chiaro. È Omar Salhoba, un medico di 42 anni ucciso il 24 agosto 2011, più di due giorni dopo la caduta di Tripoli. A Yarmuk tutti gli volevano bene perché curava i compagni feriti e perché aveva coraggiosamente cercato di farli evadere.
Il fratello maggiore di Omar, Nasser, è il responsabile degli interrogatori della brigata.
È un uomo magro e nervoso, con il volto tirato e lo sguardo isso e malinconico. Il suo uicio è un locale spoglio con le pareti scrostate e con una scrivania malridotta su cui sono impilati molti raccoglitori. “Nei primi tre mesi e mezzo di lavoro non sono mai uscito da qui”, mi dice. “Sono tornato a dormire a casa da poco”.
Il rancore di Nasser Salhoba nei confronti di Gheddai risale a molti anni fa. Nel 1996 stava studiando per diventare investigatore di polizia – il suo sogno in da bambino – quando suo fratello Adel fu ucciso allo stadio di Tripoli. I tifosi avevano osato ischiare Saadi Gheddai, iglio del dittatore e proprietario di una squadra locale, e le guardie avevano aperto il fuoco uccidendo almeno venti persone. Quando la famiglia Salhoba fu informata che non poteva avere indietro il cadavere di Adel se non irmava una dichiarazione in cui veniva deinito un mushaghib, un teppista, Nasser fece un gesto impensabile: andò al ministero dell’interno per afrontare i funzionari. “Ero fuori di me”, racconta. “Ho cominciato ad agitare la pistola e a urlare”. Le guardie lo bloccarono. Quella sera gli permisero di tornare a casa sua ma se fosse rimasto a Tripoli sarebbe stato sicuramente arrestato. Così fuggì a Malta dov’è rimasto sette anni, mantenendosi con il contrabbando di sigarette. Lì ha cominciato a bere e a drogarsi.
Non ha mai più trovato un lavoro stabile, neanche dopo che è tornato in Libia, perché era ancora sulla lista nera per la scenata al ministero. È stato suo fratello minore, Omar, pediatra e padre di due iglie piccole, a prendersi cura di lui: gli prestava soldi ma lo spingeva anche a rifarsi una vita.
Poi sono scoppiate le rivolte. Mentre Nasser, cinico come sempre, ha aspettato che inissero, Omar, l’idealista, ha rischiato la vita procurando ai ribelli grandi quantità di farmaci e materiali per la medicazione. Il 7 giugno 2011, mentre stava operando un bambino nella sua clinica di Tripoli, sono arrivati due agenti dello spionaggio che l’hanno portato via in auto. Nessuno sa dove l’abbiano condotto. Più di due mesi dopo, il 24 agosto, Nasser ha ricevuto una telefonata: Omar era stato ucciso nel carcere di Yarmuk.
“Mi sento uno schifo per non essere riuscito a salvarlo”, spiega Nasser. “Mio fratello era speciale. Io non reggevo il confronto con lui”.
In fuga con Khamis Oggi i responsabili della morte di Omar vivono al piano inferiore a quello dove ci troviamo.
L’uomo che l’ha ucciso ha 28 anni e si chiama Marwan Gdura. Quando chiedo a Nasser come ci si sente a interrogare l’assassino di suo fratello, lui si alza ed esce.
Dopo meno di un minuto ricompare con Marwan, che si siede chinandosi in avanti, con le mani legate. Gli chiedo di parlarmi di lui e poi di raccontarmi cos’è successo il 24 agosto, quando ha ucciso Omar e altre cinque persone. Marwan risponde a bassa voce ma senza esitazione. “Una cosa è chiarissima”, dice. “Se fai il soldato devi obbedire agli ordini. In quel momento, se dici di no diventi un traditore e ti mettono insieme alle vittime. E comunque, se a sparare non ci pensi tu, lo fa qualcun altro”. Mentre Marwan parla, Nasser fuma in silenzio, lanciandogli solo qualche occhiata.
Marwan spiega che il direttore del carcere di Yarmuk, Hamza Hirazi, gli ha ordinato per telefono di uccidere sei prigionieri, compresi Omar e alcuni uiciali arrestati per aver collaborato con i ribelli. “Li abbiamo tirati fuori dall’hangar e li abbiamo messi in una stanzetta”, racconta. “Abbiamo usato armi leggere. Poi abbiamo chiuso la porta e siamo andati via”. Poche ore dopo Marwan è fuggito insieme a duecento soldati comandati da Khamis Gheddafi, un altro dei igli del dittatore. Ma il loro convoglio si è imbattuto nei ribelli e Khamis è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco. Allora i fedelissimi di Gheddai sono fuggiti a Bani Walid, dove c’era Saif al Islam Gheddai, che in una caserma riceveva le condoglianze per la morte del fratello. “Non posso negarlo”, ammette Marwan. “Gli ho stretto la mano e l’ho baciato”.
Dopo essersi accampati per qualche giorno in un uliveto, i soldati lealisti, sempre meno numerosi, si sono diretti a est, verso Sirte, l’ultima roccaforte dei Gheddai, e poi a sud verso Sebha. Ogni giorno, racconta Marwan, qualcuno disertava e cercava di tornare a casa. Lui non l’ha fatto, anche se a un certo punto erano rimasti solo in cinque o sei, rintanati in una casa di campagna appena fuori Sebha. Solo quando la casa è stata attaccata da un gruppo di ribelli a bordo di un camion, Marwan è fuggito nel deserto, dov’è rimasto nascosto ino a sera.
Allora si è diretto verso una città vicina, dove è salito su un minibus diretto a nord e il giorno dopo è arrivato nella sua città, Sorman.
Gli chiedo perché è rimasto così a lungo con Gheddai. “Ho sempre avuto voglia di tornarmene a casa”, dice, “ma non avevo l’auto”.
È diicile credere a Marwan, soprattutto dopo quello che mi hanno detto alcuni suoi compagni di prigionia, e cioè che era il più convinto tra i sostenitori di Gheddai.
Dopo il massacro, gli altri secondini sono scappati. Naji Najjar se n’era andato prima che cominciasse la strage, mentre Marwan è rimasto a eseguire gli ordini di Hamza Hirazi ino all’ultimo. Oggi alcuni detenuti ce l’hanno con lui e gli danno la colpa del loro destino. “Vorrei dire a Marwan che se tornassimo indietro la prima cosa che farei è ucciderlo”, mi ha detto una volta Naji. “Se mi avesse ascoltato, saremmo fuggiti tutti dopo la caduta di Tripoli”.
Marwan smette di parlare e Nasser lo issa attraverso una nube di fumo di sigaretta.
“Dici di aver eseguito degli ordini”, gli fa. “Ma poniamo che mi venga ordinato di fare la stessa cosa a te. Dovrei ubbidire?”.
Marwan tiene lo sguardo isso sul tavolino davanti a lui.
Più tardi, dopo che Marwan è stato riaccompagnato al piano inferiore, Nasser ammette di avere ancora voglia di ucciderlo.
Ma è ancora più forte il suo desiderio di capire perché si è comportato così: “Gliel’ho chiesto molte volte. Gli ho parlato a tu per tu e in mezzo a un gruppo. Una volta mi ha detto: ‘Chi non ha fatto quell’esperienza non può capirla veramente’”. Chiedo a Nasser se secondo lui Marwan prova rimorso.
Nasser scuote la testa e fa una smoria. Una volta, mi racconta, ha visto Marwan cambiare strada per non calpestare una bandiera della Libia di Gheddai stesa per terra. I ribelli, invece, si divertono a calpestarla per sfregio. Marwan credeva che nessuno lo stesse guardando. “Ma io sì e sono andato su tutte le furie”, dice Nasser. “L’ho picchiato con il bastone. È stata l’unica volta. È incredibile che continui a comportarsi così dopo tanto tempo. Se potesse, ci ammazzerebbe tutti”.
Via da Misurata Rispetto ad altri comandanti di milizie, Jalal Ragai è più disciplinato e meno incline alla vendetta. Nei primi giorni dopo la caduta di Tripoli, quando l’ho conosciuto, Jalal era con i ribelli di Misurata, la città dove si sono svolti i combattimenti più violenti di tutta la guerra. Ma poi quelli di Misurata hanno cominciato a vendicarsi in modo brutale sui prigionieri. Per esempio uno dei vecchi secondini di Yarmuk, Abdel Razaq al Baruni, era considerato un eroe da alcuni ex detenuti perché aveva tolto i chiavistelli dalle porte dell’hangar e gli aveva detto di fuggire prima che cominciasse il massacro.
Dopo che ha visto un ribelle di Misurata sparare a Baruni su un piede durante un interrogatorio, Jalal ha deciso di andarsene portandosi dietro i suoi uomini.
Per quanto riguarda i prigionieri in mano loro, Nasser e Jalal dicono di volerli consegnare non appena si formerà un governo aidabile. Mi dicono che alcuni criminali sono stati consegnati al governo ma subito dopo sono stati rilasciati. Siccome comincia ad avere ambizioni politiche, Jalal mi sembra particolarmente desideroso di dimostrare che ha validi motivi per tenersi stretti i suoi dodici prigionieri. Tra l’altro, dice di avere delle prove che nessun altro ha visto, cioè i video delle torture girati dai carcerieri fedeli a Gheddai. Li ha presi dall’uficio di Hamza Hirazi, l’ex direttore di Yarmuk.
Una notte Jalal mi fa salire su un’auto e mi porta a casa sua a Tagiura. Ci sediamo per terra con un paio di suoi amici e mangiamo un piatto di spaghetti. Poi Jalal sistema un vecchio laptop sul bordo di uno dei divani. Sullo schermo appare una stanzetta con una sedia da uicio in pelle marrone.
C’è un uomo, con una benda sugli occhi e le mani legate dietro la schiena, che in modo brusco viene costretto a sedersi.
Una voce comincia a interrogarlo: “Chi ti ha dato i soldi? Come si chiamava?”. A un certo punto si sente un rumore di fondo: lo squillo di un cellulare. Il prigioniero viene allontanato dalla videocamera, si sente un ronzio elettronico, gemiti e urla di dolore. “In quella stanza ci hanno quasi ammazzati”, commenta Jalal.
A un certo punto entra una guardia magra dalla pelle scura, portando un vassoio con il cafè. Riconosco il volto: è Jumaa, uno dei prigionieri nel carcere della brigata. Il contrasto con il Jumaa che ho conosciuto – mite, con l’aria contrita e pieno di rimorsi – è allarmante. Nel video ha un’aria arrogante e annoiata. Sorseggia disinvolto il cafè tra il ronzio delle scariche elettriche e le urla del torturato. Ogni tanto dà una mano anche lui, prendendo a calci il prigioniero e dandogli del cane. Va e viene come se niente fosse, sembra assistere alle torture per il semplice piacere di farlo. Jalal clicca ancora e appare un altro video in cui Jumaa e altri due secondini prendono a calci e picchiano un prigioniero bendato, che grida: “Uccidimi, Ibrahim, uccidimi!”. L’uomo a cui si rivolge implorante è Ibrahim Lusha, il più temuto degli aguzzini di Yarmuk. La scena va avanti per un po’ intervallata dai commenti di Jalal che spiega: “Quello l’ha scampata e ora abita a Zliten”. Oppure: “Questo è morto nell’hangar”. Jalal e i suoi amici, compreso uno che è stato in carcere con lui, sono talmente abituati a quelle scene che, mentre guardiamo il video, passano la metà del tempo a scherzare.
Quando rivedo Nasser mi annuncia tutto iero che la loro brigata non è più un’unità qualsiasi: è stata uicialmente riconosciuta dal governo, come decine di altre milizie composte dai ribelli. Ma il riconoscimento consiste solo nel fatto che i nominativi dei miliziani sono stati spediti al ministero dell’interno, che gli ofre l’opportunità di candidarsi a qualche posto nei nuovi servizi di sicurezza. Le reclute sono indirizzate per lo più alla guardia nazionale, istituita da poco.
Il quartier generale si trova nel palazzo di Tripoli che un tempo ospitava l’accademia di polizia.
Ci vado una mattina di aprile, e lì fuori trovo migliaia di uomini in piedi sotto il sole: sono tutti thuwar che aspettavano di essere pagati. A marzo il governo di transizione libico ha deciso di pagare ogni ribelle circa 1.900 dollari (3.100 agli uomini sposati).
Chiunque può registrarsi come thuwar e nella sola Tripoli si sono presentati in ottantamila. Ma un uomo lì davanti mi fa notare una cosa: “Se fossimo stati davvero in tanti a combattere contro Gheddai, la guerra sarebbe durata una settimana e non otto mesi”. Per fortuna in Libia i giacimenti petroliferi non sono stati incendiati, e i proventi della vendita di greggio bastano ad accontentare i thuwar.
All’interno dell’edificio mi accompagnano al primo piano, in un locale che sembra la suite di un albergo, con morbidi tappeti, tende e pareti dipinte di verde brillante su cui sono aisse le vecchie mappe usate dalle pattuglie di conine durante il regime di Gheddai. Dopo qualche minuto entra un uomo di mezz’età, Ali Nayab, il vicecomandante della nuova guardia nazionale. È stato pilota di caccia nella vecchia aeronautica militare, ma poi ha trascorso sette anni in carcere per aver partecipato a un tentativo di colpo di stato nel 1988 (Nayab voleva schiantarsi con il suo jet sulla residenza di Gheddai). “In realtà non avevo voglia di morire”, aggiunge, “ma ero pronto a farlo se fosse stato l’unico modo di eliminare Gheddai”.
Quando gli chiedo cosa pensa dell’idea di integrare gli ex ribelli nella guardia nazionale, fa un sorriso imbarazzato e spiega che non si è ancora riusciti a fare niente per chi si è arruolato. Mancano le indicazioni del governo di transizione. Nel frattempo gli uomini restano in casa o continuano a lavorare nelle loro brigate. “Il risultato è un grande vuoto tra il governo di transizione e i thuwar. E loro cominciano a sentirsi frustrati”, spiega.
Secondo Nayab alcuni comandanti delle milizie sono riluttanti a cedere il potere.
Prima della rivoluzione non contavano niente ma ora godono del rispetto che si riserva ai signori della guerra. Più a lungo durerà il vuoto, più queste persone rimarranno attaccate al potere. E più fatica farà il nuovo governo ad afermarsi.
Lungo i conini Uno di questi comandanti adesso tiene prigioniero Hamza Hirazi, l’ufficiale al comando durante il massacro di Yarmuk. Voglio parlargli perché nessuno è ancora riuscito a spiegarmi uno dei punti oscuri delle stragi avvenute negli ultimi giorni del regime di Gheddai. I soldati lealisti hanno ucciso Omar Salhoba e gli altri il 23 e 24 agosto, nel momento in cui Tripoli stava cadendo in mano ai ribelli. Perché? E chi ha dato l’ordine? L’uomo che sorveglia Hirazi guida una brigata di uomini provenienti dalle montagne di Nafusa, tre ore a sud di Tripoli. Si chiama Eissa Gliza e la sua milizia si è insediata in uno dei quartieri più ricchi della capitale, in una villa appartenuta ai igli di Gheddai. Prima della rivoluzione Gliza era un imprenditore edile. Oggi comanda 1.100 uomini armati. Gli chiedo un incontro con Hirazi e lui promette di organizzarlo. Ma non sarà facile, mi spiega, perché hanno già cercato di ucciderlo due volte e lui lo fa spostare continuamente. Vorrei sapere anche se il governo ha manifestato qualche interesse per la sorte di Hirazi, visto il ruolo di primo piano nel regime di Gheddai.
“Il governo?”, esclama Gliza in tono sprezzante. “A quelli interessano solo gli afari e il petrolio. Sono igli del Qatar. Sono agli ordini di Sheikha Mozah, una delle mogli dell’emiro del Qatar. La linea del fronte non l’hanno mai vista”.
Intanto la tv annuncia che il capo del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), Mustafa Abdel Jalil, minaccia di ricorrere alla forza per fermare le ostilità scoppiate tra due diverse città dell’ovest del paese.
“Chi è che userà la forza?”, commenta Gliza ironico. “Tre giorni fa gli uomini mandati dal Cnt sono entrati a Zuwara dicendo: ‘Siamo l’esercito nazionale, vogliamo raggiungere la linea del fronte’. Non sono rimasti neanche un’ora. Un soldato si è addirittura pisciato addosso. Dicono che si sono arruolati in trentacinquemila. Be’, se anche venissero qui tutti e trentacinquemila, ne basterebbero duecento dei nostri a fermarli.
Fino a quando non ci sarà un governo vero, nessuno è disposto a cedere il potere”.
Il vuoto di potere in Libia è particolarmente evidente soprattutto lungo i conini.
All’inizio di aprile sono scoppiati degli scontri tra due milizie di ex ribelli vicino a Zuwara, una città portuale nell’estremo ovest della Libia. Qui il contrabbando rende bene e, la settimana prima, degli scontri simili nel sud del paese avevano fatto quasi 150 morti.
Arrivo a Zuwara due giorni dopo l’incontro con Gliza e trovo una zona di guerra: la terra trema per i colpi di mortaio e riesco a identiicare i colpi della contraerea. Un uomo che si presenta come il portavoce del consiglio militare locale si ofre di portarmi in auto alla linea del fronte. Oggi a Zuwara moriranno quattordici persone e altre 126 saranno ferite.
Percorriamo la strada principale della città tra ile di ediici crivellati dai proiettili.
In periferia la strada è afollata di automobili e pick-up con fucili montati a bordo.
L’inizio della terra di nessuno è contrassegnato da due container, superati i quali la strada diventa una salita polverosa e poi scompare alla vista.
Un ribelle, un bel ragazzo di 23 anni di nome Ayub Sufyan, con il fucile a tracolla, mi grida in un orecchio per superare il frastuono delle armi: “Il governo dice di aver mandato l’esercito nazionale. Tu hai visto qualcuno? Quando venticinque dei nostri sono stati rapiti, abbiamo detto basta. Abbiamo detto al governo: ‘Se volete aiutarci, bene, se no facciamo da soli’. Siamo giovani e non crediamo in questo governo”.
A qualche centinaio di metri di distanza, appena fuori dalla portata dell’artiglieria, trovo alcuni dei più noti comandanti ribelli fermi sul ciglio della strada. Regna una gran confusione: alcuni sostengono di rappresentare il ministero dell’interno, altri quello della difesa, altri ancora la milizia di frontiera chiamata Scudo della Libia. Tra loro c’è anche Mukhtar al Akhdar, il famoso capo della brigata di Zintan che ino a poco tempo prima controllava l’aeroporto di Tripoli.
Con i suoi lineamenti scolpiti, l’espressione stoica e la sciarpa avvolta elegantemente attorno al capo, Al Akhdar sembra nato per recitare la parte del ribelle. Gli chiedo cosa ci faccia lì. “Noi non stiamo combattendo”, spiega. “Noi siamo i rivoluzionari della Libia e vogliamo risolvere il problema. Qui entrambe le parti si scambiano accuse, mentre noi siamo decisi a risolvere il problema”.
Ma le violenze vanno avanti. Il giorno dopo, accompagno Jalal in una cittadina vicino a Zuwara dove si svolge la riunione di un gruppo denominato Consiglio dei saggi. L’incontro avviene in un vecchio albergo sul mare, in una sala riunioni dotata di un enorme tavolo rettangolare su cui è stata sistemata una bandiera libica in miniatura e una bottiglia d’acqua per ogni partecipante.
Una serie di anziani vestiti con gli abiti bianchi tradizionali prende la parola per ribadire che non esiste un’autorità di governo e che tutti i capi ribelli sono incapaci di fermare le violenze a Zuwara. Ma, siccome non riescono a mettersi d’accordo, dopo un’ora si alzano e se ne vanno.
“Questo consiglio è inutile”, commenta Jalal mentre torniamo a Tripoli a bordo del suo Land Cruiser. “Gli anziani non hanno più nessun controllo o almeno non ce l’hanno più come un tempo. Ai giovani dobbiamo parlare in un linguaggio adatto a loro.
Alcuni sono qui per i loro interessi personali, io invece perché alcuni miei amici sono stati uccisi e bruciati”.
Un giorno Nasser mi conida che la sua frustrazione nei confronti di Marwan ha superato il limite. Ha passato mesi a parlare con lui, domandandogli perché avesse ucciso suo fratello e chiedendogli dettagli sugli ultimi giorni di Omar, per cercare di capire perché lo avessero condannato a morte visto che la guerra era inita. “Ho capito che Marwan è una persona terribilmente fredda”, mi dice. “Lui era la testa del serpente. Tra tutti i secondini, lui era quello che insisteva per eseguire gli ordini: gli altri non volevano uccidere. Ma lui era completamente privo di emozioni e lo è ancora.
Vorrei capire se si comporterebbe nello stesso modo alla presenza dei suoi familiari”.
Visita familiare E così Nasser ha telefonato al padre di Marwan per invitarlo a venire a trovare suo iglio.
Per Nasser la riunione di famiglia è stata una rivelazione. “Marwan era molto emozionato”, racconta. “La sorella gli vuole bene e il fratello pure: quando lo vedi in loro compagnia, non capisci come possa uccidere a sangue freddo”. Nasser sembra confortato da quello che ha visto, quasi sollevato, anche se non riesce a spiegare perché.
Gli sembra di capire un po’ meglio Marwan, ma il suo crimine continua a essere un mistero.
Il venerdì dopo il padre di Marwan torna, stavolta accompagnato da due parenti. Nasser li aiuta a portare casse di viveri (yogurt, frutta, biscotti fatti in casa) nella cella di Marwan, al piano di sotto.
Quando torna su, il padre di Marwan è fermo in piedi accanto alla porta che aspetta. Si avvicina a Nasser e lo guarda negli occhi addolorato. “Mi ha abbracciato e mi ha baciato in fronte”, racconta Nasser.
“Deve sapere tutto”.
Due giorni dopo Nasser mi chiede: “Qual è la deinizione di vendetta? Far provare ai familiari del colpevole quello che hanno provato i miei? Avrei potuto uccidere Marwan in qualsiasi momento, e nessuno lo avrebbe saputo. Però non voglio tradire il sangue dei nostri martiri. Noi vogliamo un paese governato da leggi”. Raccoglie i fogli sulla scrivania e li mette nello schedario.
Sembra assorto, come se stesse cercando di convincersi di qualcosa. Spegne la sigaretta in un posacenere e si rivolge di nuovo a me: “E poi, che onore c’è a vendicarsi su uno che sta in prigione?”.
Non capisco esattamente cosa spinga Nasser a sostenere quel lungo confronto con Marwan: di sicuro c’entra in parte la rabbia, che non si è placata e forse non si placherà mai. I lunghi mesi di interrogatori gli hanno dato un sollievo inatteso, una possibilità di capire meglio suo fratello Omar, ma anche di analizzare i suoi errori.
“Chiedo ai prigionieri di dirmi tutti i dettagli su di lui: quante volte è stato picchiato, di cosa parlava, che aspetto aveva”, racconta Nasser. “Del fatto che era disposto anche alla rissa pur di ottenere cure mediche appropriate per gli altri detenuti.
Quando li torturavano, se li faceva portare in cella per poterli curare”. Nasser è commosso dai racconti sul coraggio di suo fratello.
Una volta Omar ha addirittura corrotto un secondino perché portasse una ricetta medica in farmacia: sul foglio aveva scritto un’implorazione di aiuto in inglese. Ma la farmacista ha tradotto quello che c’era scritto per il secondino, che quando è tornato a Yarmuk ha picchiato Omar.
C’è un particolare che tormenta Nasser: secondo i detenuti, Omar in carcere ha parlato moltissimo di lui. Continuava a ripetere che, se avesse potuto, suo fratello Nasser l’avrebbe tirato fuori. “Provo un rimorso terribile per non averlo aiutato”, dice Nasser.
Poi mi racconta la storia di un soldato, un uomo con molti agganci che avrebbe potuto fare qualcosa se Nasser avesse insistito.
Ma non l’aveva fatto. Non era neanche andato a trovare Omar prima del suo arresto. Ora il senso di colpa lo spinge a immaginarsi finali alternativi.
“Avrei fatto qualsiasi cosa, perino andare al fronte con Gheddai, se fosse servito a salvare mio fratello”, dice Nasser. “Ma in in dei conti l’importante è quello che hai dentro”. Eppure, mentre dice queste parole, non sembra convinto.
Comunque Nasser non si ferma al passato recente: passa in rassegna tutta la sua vita per capire dove ha sbagliato. È sempre stato la pecora nera della famiglia. Lui era il igliol prodigo, mentre Omar era quello coscienzioso.
Omar era tornato in Libia nel 2009, dopo aver trascorso una decina di anni all’estero, e aveva detto agli amici di vergognarsi dell’arretratezza del paese e di voler dare una mano. Aveva portato con sé i libri su Gheddai scritti da dissidenti e si era convinto che il paese aveva bisogno di cambiare. A quel tempo Nasser l’aveva giudicato ingenuo. Ma ora ha capito che aveva ragione.
Omar è diventato per Nasser uno schermo su cui proiettare i suoi fallimenti: le bugie, i meccanismi di sopravvivenza vigliacchi che entrano in gioco quando vivi sotto una dittatura. Ho la sensazione che Nasser si sforzi di imparare dal fratello e, anche se può sembrare strano, di insegnare a sua volta qualcosa a Marwan. Dopo che i suoi genitori se ne sono andati, Nasser va di sotto a parlargli. “Gli ho detto: ‘Guarda cos’ho fatto io e guarda cosa hai fatto tu’. Tu hai ucciso mio fratello, mentre io ho fatto in modo di farti vedere i tuoi parenti’”, mi racconta.
Piazza dei Martiri Un pomeriggio Nasser mi porta a trovare la vedova di suo fratello a Suq al Jumaa, un quartiere residenziale di Tripoli. Ci apre la iglia di Omar, una bambina di dieci anni con tanti braccialetti arancio e rosa ai polsi.
Mi saluta in inglese e ci accompagna in un soggiorno all’occidentale con un tappeto bianco. Si chiama Abrar, e la sua sorellina di 4 anni, Ebaa, si avvicina a noi saltellando.
Dopo qualche minuto scende la madre, Lubna, che dopo essersi presentata comincia un lungo racconto sugli anni trascorsi in Gran Bretagna, prima a Newcastle e poi a Liverpool, sul ritorno in Libia e inine sulla scomparsa del marito. “Per tutto quel tempo abbiamo avuto una paura folle”, dice.
“Ancora oggi mi spavento se sento un aeroplano”.
Mentre Lubna parla, la iglia minore giocherella con la mia barba e mi ruba penna e taccuino. Alla ine si rannicchia contro di me, stringendomi il braccio e appoggiandomi la testa sulla spalla. “Fa così da quando è morto suo padre”, spiega Lubna.
Abrar, la primogenita, è corsa via a prendere il diario che aveva tenuto all’epoca della morte del padre. È un documento notevole, un resoconto scritto in inglese su fogli a righe nella sua prosa lineare da bambina.
“Abbiamo ricevuto una telefonata e ci hanno detto che papà era morto, e allora mia mamma ha picchiato la testa contro il muro e si è messa a gridare, e io ho pianto”, ha annotato quel giorno. Poi racconta una serie di sogni che ha fatto sul padre: in tutti lui la rassicurava dicendole che era in paradiso.
A un certo punto Lubna ci racconta di aver pregato il marito di portarle tutte in Tunisia, per sicurezza. Allora Abrar salta su, e interviene con lo stesso tono diretto e sicuro che ha usato nel diario: “Noi dicevamo: ‘Papà, portaci via dalla Libia’, e lui rispondeva: ‘Mai. L’ospedale ha bisogno di me, i bambini hanno bisogno di me. Io non me ne andrò mai. Piuttosto muoio lì dentro’”.
Durante tutto l’incontro Nasser resta seduto sul divano in silenzio. Ogni tanto dà un giocattolo alla bambina più piccola.
Mentre usciamo, le iglie di Omar ci fanno visitare lo studio del padre. È una stanzetta disadorna: alle pareti, incorniciate, le lauree che aveva preso in Gran Bretagna; per terra, due grandi casse piene di giocattoli.
“Ecco la cosa che mi fa stare più male”, commenta Nasser. “Tutti i padri amano i loro igli, ma l’amore di Omar per le bambine era ancora più grande”.
Ci dirigiamo verso l’auto mentre cala la sera. Chiedo a Nasser come vede il futuro: che farà una volta sciolta la brigata? Lui risponde che vuole sempre diventare un investigatore, ma stavolta per un ministero vero. Intanto Abrar si arrampica sul sedile posteriore, stringendo un orsacchiotto di peluche: lo zio ha promesso di portarla in cartoleria. Andiamo a piazza dei Martiri: così è stato ribattezzato lo slargo in cui un tempo Gheddai esortava i libici a battersi ino all’ultimo. Ma oggi per le strade non c’è più neanche una foto del Colonnello e su tutti i muri dipinti di verde i ribelli hanno scritto “Cambiate colore!”. L’aria è diventata più fredda e mentre procediamo nel trafico sento uno sparo isolato risuonare sopra le acque del Mediterraneo.
“Non sempre andavo d’accordo con mio fratello”, dice Nasser. “Ma solo perché lui voleva che io diventassi una persona migliore”.