Angiola Codacci-Pisanelli, L’Espresso 28/6/2012, 28 giugno 2012
Quando l’acciaio vibra– Dal Moleskine all’iPad. Dallo schizzo al rendering. Dal volumone all’"app"
Quando l’acciaio vibra– Dal Moleskine all’iPad. Dallo schizzo al rendering. Dal volumone all’"app". C’è tutto il Fuksas più interessante nelle due opere che hanno raccolto i suoi lavori. La prima è il monumentale "Fuksas Building" (Actar), un librone in cui si susseguono schizzi e dipinti, testi e fotografie relativi ai principali progetti realizzati o in costruzione firmati negli ultimi dieci anni da Massimiliano e da Doriana Fuksas, moglie e collaboratrice, dalla "Nuvola" dell’Eur alla Guosen Securities Tower di Shenzhen, in Cina. L’altra è l’applicazione per iPad "Fuksas Architetture e percorsi" di Encyclomedia: quaranta progetti dagli anni Settanta a oggi in tutte le loro fasi di lavorazione: schizzi e fotografie, rendering e dettagli di cantiere. Un doppio omaggio che Massimiliano Fuksas racconta così. Come è nata l’applicazione "Fuksas Architetture e percorsi"? "L’ha ideata Danko Singer, editore multimediale, ed è stata realizzata da Carlotta Eco, figlia di Umberto. L’editore - l’ho scoperto dopo - è Corrado Passera: ha questa piccola casa editrice che adora, con cui fa libri di filosofia e storia, e ha pubblicato l’Encyclomedia di Eco". E il libro? "L’idea era di fare una cosa diversa da quelle raccolte di opere che sanno un po’ di "post mortem". Si vede già dal titolo: "Building" vuol dire edificio ma vuol dire anche costruire, costruendo. Quindi cose presenti ma anche future. E cose di cui sono orgoglioso non solo per il progetto ma anche per la realizzazione: come la Fiera di Milano, costruita in 26 mesi tenendo il budget fermo e anche più bella, adesso, grazie alla manutenzione ben fatta, agli alberi che crescono...". Come si sente più a suo agio, quando fa schizzi a pennarello o quando usa l’iPad? "Continuo a lavorare con il Moleskine, all’inizio: un blocco come quello riprodotto all’inizio del volume di Actar. Butto giù schizzi, poi incollo, faccio collage. All’iPad sono arrivato da poco. All’inizio non lo capivo, poi mi sono reso conto che è utilissimo. Sei lì a parlare con i tuoi fiduciosi committenti, fai qualche schizzo per far immaginare la tua idea, e poi apri l’iPad e fai vedere esattamente come hai già realizzato qualcosa di simile, in un altro progetto. Io lo uso un po’ come album delle figurine, mi porto dietro tutto quello che mi serve: migliaia e migliaia di informazioni nello spazio di un blocco di fogli per appunti. Anche le conferenze e gli articoli per "l’Espresso" li scrivo così, tenendo sotto gli occhi le immagini degli edifici di cui voglio parlare". Negli ultimi anni con sua moglie lei ha progettato mobili, sanitari, posate. Come cambia il lavoro, passando dal grande al piccolo e dal lavoro di gruppo a quello di coppia? "È molto educativo. Prima di tutto per noi due: Doriana e io ci rispettiamo molto e dato che sono trentadue anni che viviamo insieme abbiamo imparato quando fermarci nelle nostre riflessione per dare spazio all’altro. Molti mi chiedono come facciamo a vivere e lavorare insieme, di cosa parliamo la sera. Ma io non sento davvero il bisogno di "staccare", è una parola che odio. Quando ho conosciuto de Chirico, una delle prime cose che mi ha detto è stata che c’erano parole che con lui non dovevo mai usare: "ascella", per esempio... Ecco, io odio due parole, "staccare" e "pensatoio": perché non si pensa a comando, qui sì e là no. Comunque, Doriana e io spesso di giorno non ci vediamo perché lavoriamo in parti diverse dello studio - io seguo di più i grandi progetti e lei il design, anche se poi lei dà sempre un parere sulle cose grandi come faccio io con le piccole. Le piccole cose sono educative perché ti ridimensionano: per progettare la poltrona Frau c’è voluto lo stesso tempo che per l’aeroporto di Shenzhen". Sfogliando queste immagini si nota una costante: la ricerca dei riflessi, anche con l’uso di vetro e alluminio. "Mi interessano le vibrazioni: odio le pareti opache, mi piacciono quando scompongono e ricompongono le immagini, amo l’immagine virtuale più di quella reale. Nell’Archivio Nazionale a Parigi c’è un gioco di riflessi tra l’acqua e i controsoffitti di alluminio, e il rivestimento anch’esso di alluminio lavorato a losanghe. Tra le due parti dell’edificio c’è una faglia con un bacino d’acqua su cui galleggia una scultura di Anthony Gormlay. Forse è la lezione che devo a Roma, una città barocca dove un muro non è mai il finale di un asse ma è sempre deformato, come se fosse in movimento. L’altra cosa che ci ha insegnato il barocco è che noi usiamo sempre non l’assialità ma la diagonale. Tutti i miei progetti nascono intorno a diagonali virtuali. E questo viene da Caravaggio, tutte le sue opere usano lo spazio della tela con un senso diagonale, non assiale come nella pittura classica: è questo, oltre alla luce, il segreto della dinamicità delle sue immagini". Nella sua formazione lei è partito dall’arte... "E ci sono rimasto!". Nel senso che considera i suoi edifici come opere di "land art"? "Sì, ho sempre pensato che l’architettura diventa interessante o quando si trasforma in paesaggio o quando diventa scultura. Se è solo "building" non dà nessuna emozione. Per emozionare, l’architettura deve ricongiungersi con l’universo dell’arte. Credo che in questo periodo l’arte stia riunificando i vari rivoli in cui si è divisa negli ultimi duecento anni, quando con l’illuminismo si è deciso che ogni cosa aveva un suo carattere e un linguaggio specifico. Ora invece tutto tende dalla stessa parte: le sculture di Richard Serra non sono meno architettoniche degli edifici che le circondano, il percorso di Anish Kapoor o di Gromley dà sempre l’idea di un riavvicinamento o un allontanamento dall’architettura, e lo stesso vale per Eliasson. Prima o poi ci dovremmo ritrovare insieme, scultori e architetti e anche qualche filosofo, se capita, e riflettere su come emozionare". Tra i suoi maestri lei non cita architetti ma artisti come de Chirico e un poeta: Giorgio Caproni... "Ma lui è stato mio maestro davvero: per due anni alle elementari. Io l’ho adorato. Mio padre era morto uno o due anni prima, io ero tornato dalla Germania dove vivevo con mia nonna. Mia madre insegnava filosofia e tornava a casa tardi e per questo spesso lui mi invitava a colazione a casa sua dove c’erano i suoi due figli e la moglie. Mi ha avvicinato alla poesia e alla musica - suonava il violino - ma in realtà la nostra passione erano i trenini. Lui li adorava, se non sbaglio aveva un Rivarossi, e passavamo ore a costruire supporti e percorsi. È stato importantissimo per me: a nove anni mi ha messo in mano i libri che traduceva - Céline, García Lorca. Era sempre squattrinato: nelle foto di classe è così magro, con la faccia lunga e i capelli ritti, vicino a me che ero piccolissimo: sembriamo la pubblicità di quanto stiamo bene oggi rispetto a quei terribili anni Cinquanta". In un brano di consigli a un aspirante architetto, lei scrive che non si deve copiare mai ma rubare sempre. Perché? "Copiare è un lavoro stupido che non insegna nulla. Per rubare invece devi sapere cosa ti serve, quindi parti da una idea tua. Copiare è ripetitivo, rubare è creativo: prendi idee che sono nell’aria e le trasformi in realtà".